Cap 6
Mi fermo qualche decina di km avanti a pomeriggio inoltrato.
C’è un area di sosta per i camion dove si può mangiare.
La terra intorno è gialla, il cielo è giallo e la luce filtra in mezzo alla sabbia nel vento.
Capisco ora perché da queste parti tutti sputano continuamente e disinvoltamente.
Il posto all’interno sembra freschissimo anche senza condizionatori.
Si entra in una grande sala, ora vuota, con addossato al muro un mobile decorato in zinco con lavabo e specchio.
Sulla destra il banco dove si ordina da mangiare e qualche tavolo.
In realtà nel banco non ci sono prodotti alimentari ma ricambi per auto e camion, attrezzi, lampadine.
La parete alle spalle della signora che gestisce è aperta e comunicante con la cucina.
Non sono particolarmente gentili, ma riesco ad ordinare un piatto di carne squisita e una birra ghiacciata scambiando qualche sorriso,
ma nessuno mi fa domande. Neppure i camionisti russi che entrano a comprare qualcosa mi degnano di attenzione e va benissimo.
Dietro il banco, in alto a destra nell’angolo, c’è un piccolo televisore sintonizzato su un canale russo che
trasmette “Beetlejuice” in lingua originale con la voce dei doppiatori sovrapposta a quella degli attori anglofoni in modo grezzo e inespressivo.
Sarà pure barbaro, ma così si impara la lingua, e non è poco.
Mangio la mia squisitezza di carne combattendo una guerra spietata con le migliaia di mosche del locale,
neanche minimamente decimate dalla carta moschicida penzolante dal soffitto come fosse un addobbo di carnevale.
Faccio altri km verso sud con l’obiettivo di arrivare a Nukus , la prima citta di una certa importanza, almeno amministrativa, sulla mia strada e,
secondo Samat, la prima traccia di civiltà dopo il superamento dell’inferno.
Già…. Samat e l’inferno di sabbia! Finora gli unici km terribili sono stati gli 80 tra beyneu e la frontiera.
La strada che sto facendo ora passa in mezzo alla sabbia fine e infuocata, ma è d’asfalto.
Il manto è sbriciolato, ci sono buche di una certa profondità anche consecutive, ma è asfalto.
E alla seconda sbarra di controllo , dopo quella del ragazzino, il vecchio che mi ha aperto mi ha chiesto se avessi benzina.
Sono quasi certo che la vendesse pure.
La vocina dice sempre più forte: “lo vedi? Lo vedi che non era vero?”
Ma perché? Proprio non riesco a spiegarmi il perché di quegli avvertimenti così minacciosi.
Stare assorto in questi pensieri mi distrae dalla strada e spesso
le buche sono cosi profonde o i dossi di sabbia così alti che la moto salta in modo scomposto,
con la ruota posteriore che si alza più dell’anteriore.
Rischio un po di volte di perdere il controllo anche per il rinculo del fondo corsa, ma riesco sempre a tenerla e ad evitare il peggio.
Penso che se cadessi ora su quest’asfalto a questa velocità sarebbe un massacro di scorticature nella migliore delle ipotesi e la cosa mi fa rabbrividire.
Al tramonto sono quasi vicino a Nukus quando la strada gira a destra e supera la ferrovia.
Lì ci stanno dei bambini che vendono bottiglie d’acqua, provenienti dal villaggio che si scorge sulla sinistra.
Quando mi vedono impazziscono correndomi dietro.
Io ho fretta e non vorrei fermarmi ma uno di loro mi urla “ Nomer! Nomer! Smatrì nomer!” La targa? “Nomer remont!”
La targa è rotta? Opporcaputtana!
Scendo a controllare.
E sì: la plastica è tranciata in due proprio sopra la targa stessa e rimane attaccata soltanto con il filo della luce.
I bambini ridono ripetendo a pappagallo le mie bestemmie e per evitare di passare alla storia come emulo di Erode mi sposto un km più avanti.
Comincio a svuotare le valigie per tirare fuori il nastro isolante e fare una riparazione provvisoria.
Dalla direzione opposta arriva un bambino a piedi che quando mi saluta , lo fa porgendomi entrambe le mani.
Qui è un gesto diffuso: si fa con i familiari e con le persone degne di tanto rispetto.
Forse perché da solo, a differenza degli altri, lui è molto educato:
mi guarda con i suoi occhi grandi e neri mentre avvolgo il porta targa col nastro ,
rispondendo educatamente alle mie domande e sorridendo ai miei sorrisi tirati.
Dalla stessa direzione arrivano due tipi su una vecchia Ural arancio.
Il tipo che guida , con la faccia e i modi dell’ italico meridionale che si crede un boss,
scende dalla moto camminando a gambe larghe chiamandomi continuamente “maifrend!” .
Dice che sta andando al villaggio vicino ad accompagnare il suo amico che domani si sposa,
di aspettarlo lì così poi vado con lui a Nukus e lì grande divertimento e ottimi alberghi e cibo buono evvai così.
Voi penserete che io abbia aspettato il mio nuovo Maifrend per andare a Nukus con lui, vero?
Sbagliato:
già stavo incazzato, figurarsi quando uno che mi vede in difficoltà arriva ridendo,
chiedendomi sigarette (da me arrotolate, per lui e l’amico) di cui sputacchierà il tabacco a 20 cm da me per tutto il tempo,
e preoccupandosi solo di fare foto col pollice in alto davanti alla mia moto.
MavafanculutueNukus!
Il ragazzino mi dice che c’è una “gastiniza” nel villaggio e mi può accompagnare.
Perfetto: una notte al villaggio è quello che ci vuole oggi.
Lo faccio montare dietro ed entriamo in paese ,
lui mostrandomi la strada io regalandogli un giorno di gloria di fronte agli altri bambini.
Maifrend esce in contemporanea al nostro ingresso e non gli do tempo di dire nulla, neanche mi fermo.
http://www.youtube.com/watch?v=nLKzUMqOjfU
La locanda è in realtà uno spaccio di bibite e qualche alimento,
di proprietà di una signora sui sessanta che veste in abito tipico, la testa coperta con un foulard colorato.
Insieme a lei ci sono una giovane donna, che scopro essere la nuora, e il nipotino sui sette/ otto anni.
La casupola si sviluppa ad L: lo spaccio prende un braccio, sull’altro ci stanno 3camere con due letti ciascuna.
All’incrocio, in fondo, il WC separato da lavabo e doccia in costruzione.
Ci accordiamo per il prezzo, davvero ridicolo, e compro un bottiglia d’acqua gassata e gelata.
Me la godo nello spiazzo lì davanti, seduto su una panca circondato dai bambini, caciaroni e divertenti ma difficili da tenere a bada.
Il più guappo ha una bici con i CD attaccati ai raggi e una sirena polifonica che fa un macello della madonna.
A lui piace la mia moto, a me piace la sua bici: tra tamarri ci si intende.
Ce n’è un altro con la bici nuova nuova e colorata che dice che la sua è più ****.
Un altro mi chiede da fumare e ovviamente gli dico di no perché è piccolo e perché fa male.
-“E tu perché fumi?”
-“perché sono stupido?”
Risata
-“in Italia parlate il russo?”
-“No, l’italiano!”
-“E perché lo parli?”
-“per venire qui da voi! E voi perché parlate russo se siete Uzbeki?”
-“Lo studiamo a scuola!”
Azzo! Lo studiano pure a scuola! Ma non era questa la terra dove nessuno parla russo?
Ridono ai miei gesti, ridono alle mie imprecazioni quando il ragazzino accende la sirena.
Sono bellissimi e non posso fare a meno di ricordare l’infanzia
quando scapicollavo con gli amici per campi e viuzze della periferia di Catanzaro,
chi con la bici nuova fiammante, chi con il più improbabile velocipede possibile, senza distinzione di reddito o classe.
Bella l’infanzia, con i sogni alimentati dalla fantasia e l’occhio vigile e protettivo dei genitori.
Ma francamente ancora più figo essere adulti,
quando i sogni li puoi realizzare e la vigilanza familiare è stata abbondantemente destituita:
e mica ci puoi andare da bambino in Uzbekistan con la moto!
La signora mi invita a mangiare con la famiglia.
Beviamo the e mangiamo una zuppa di verdure e carne tritata.
Mi racconta del figlio che sta via a lavorare in Russia e torna poche volte all’anno.
E questa pare essere storia comune nel villaggio: entrando ho visto molte donne.
Praticamente è un villaggio di donne e bambini.
Evidentemente gli uomini sono costretti a emigrare in massa, chi nelle città più grandi, chi in Russia.
Mentre parliamo i bambini entrano ed escono dalla casa, guardandomi e ridendo , facendomi gesti e boccacce.
A un certo punto uno di loro mi chiama e mi fa vedere che hanno svitato il tappo della ruota posteriore con l’intenzione di sgonfiarla.
Io m’incazzo e urlo a tutti che questo è pericoloso per me,
ed è pericoloso che si attachino alla moto come scimmie (ne avevo trovati un paio appesi al manubrio che tiravano dal lato opposto al cavalletto).
Insomma li sgrido abbastanza pesantemente.
Il ragazzino che mi aveva chiamato se ne va mandandomi a cacare, gli altri se ne vanno offesi.
Spiego alla signora perché li ho cazziati, e lei lo spiega ai genitori dei ragazzini che chiamano lei per sapere cos’ è successo.
Comunque sia la signora e la nuora vanno a dormire e mi lasciano tutta la casa.
Posso prendere dal negozio, avessi bisogno di qualcosa, lasciando i soldi.
Tutto rimane aperto, anche la porta in modo da scoraggiare chi volesse avvicinarsi alla moto.
Così suggerisce la signora.
Io sono stanco e vorrei farmi un bel sonno ma ho un pensiero che non riesco a togliermi.
Ho trattato male quei ragazzini che stavano solo giocando.
Non hanno minimamente idea di quanto possa pesare una moto come quella , con quel carico.
E magari credono che a sgonfiare la ruota me la rigonfio in un baleno, come fanno loro con le loro bici.
E dopo sto cazziatone che ricordo si porteranno del forestiero con la moto nera?
No, dai: il senso di colpa è troppo forte.
Non mi va di essere ricordato come lo ******* arrivato dal nulla a cazziarli.
Non posso rovinare così una bella giornata, mia e loro.
Quindi prendo frasario e dizionario, metto insieme due concetti base e torno da loro, che continuano a giocare a nascondino tra le vie del villaggio.
Appena sbuco tutti si raggruppano intorno a me e gli spiego che non volevo arrabbiarmi,
che l’ho fatto perché non mi so spiegare bene e ho avuto paura per la cosa pericolosa che stavano facendo.
Di non giocare con la moto salendoci sopra perché è pesantissima e se gli cade addosso è capace di schiacciare uno di loro.
Di scusarmi per i miei modi.
Siamo Amici? Sì, siamo amici!
Partono le strette di mano e i sorrisi. Mi sento davvero meglio.
Loro tornano a giocare e mi danno la buonanotte.
Probabilmente avranno fatto pure il circo sulla mia moto quella notte.
Io di certo non ho sentito nulla.
Fa caldo, ma appena tocco il materasso crollo per il sonno e la soddisfazione di passare la mia prima notte in Uzbekistan.
Con un pensiero neanche tanto recondito:
Samat…. Tiè!
Mi fermo qualche decina di km avanti a pomeriggio inoltrato.
C’è un area di sosta per i camion dove si può mangiare.
La terra intorno è gialla, il cielo è giallo e la luce filtra in mezzo alla sabbia nel vento.
Capisco ora perché da queste parti tutti sputano continuamente e disinvoltamente.
Il posto all’interno sembra freschissimo anche senza condizionatori.
Si entra in una grande sala, ora vuota, con addossato al muro un mobile decorato in zinco con lavabo e specchio.
Sulla destra il banco dove si ordina da mangiare e qualche tavolo.
In realtà nel banco non ci sono prodotti alimentari ma ricambi per auto e camion, attrezzi, lampadine.
La parete alle spalle della signora che gestisce è aperta e comunicante con la cucina.
Non sono particolarmente gentili, ma riesco ad ordinare un piatto di carne squisita e una birra ghiacciata scambiando qualche sorriso,
ma nessuno mi fa domande. Neppure i camionisti russi che entrano a comprare qualcosa mi degnano di attenzione e va benissimo.
Dietro il banco, in alto a destra nell’angolo, c’è un piccolo televisore sintonizzato su un canale russo che
trasmette “Beetlejuice” in lingua originale con la voce dei doppiatori sovrapposta a quella degli attori anglofoni in modo grezzo e inespressivo.
Sarà pure barbaro, ma così si impara la lingua, e non è poco.
Mangio la mia squisitezza di carne combattendo una guerra spietata con le migliaia di mosche del locale,
neanche minimamente decimate dalla carta moschicida penzolante dal soffitto come fosse un addobbo di carnevale.
Faccio altri km verso sud con l’obiettivo di arrivare a Nukus , la prima citta di una certa importanza, almeno amministrativa, sulla mia strada e,
secondo Samat, la prima traccia di civiltà dopo il superamento dell’inferno.
Già…. Samat e l’inferno di sabbia! Finora gli unici km terribili sono stati gli 80 tra beyneu e la frontiera.
La strada che sto facendo ora passa in mezzo alla sabbia fine e infuocata, ma è d’asfalto.
Il manto è sbriciolato, ci sono buche di una certa profondità anche consecutive, ma è asfalto.
E alla seconda sbarra di controllo , dopo quella del ragazzino, il vecchio che mi ha aperto mi ha chiesto se avessi benzina.
Sono quasi certo che la vendesse pure.
La vocina dice sempre più forte: “lo vedi? Lo vedi che non era vero?”
Ma perché? Proprio non riesco a spiegarmi il perché di quegli avvertimenti così minacciosi.
Stare assorto in questi pensieri mi distrae dalla strada e spesso
le buche sono cosi profonde o i dossi di sabbia così alti che la moto salta in modo scomposto,
con la ruota posteriore che si alza più dell’anteriore.
Rischio un po di volte di perdere il controllo anche per il rinculo del fondo corsa, ma riesco sempre a tenerla e ad evitare il peggio.
Penso che se cadessi ora su quest’asfalto a questa velocità sarebbe un massacro di scorticature nella migliore delle ipotesi e la cosa mi fa rabbrividire.
Al tramonto sono quasi vicino a Nukus quando la strada gira a destra e supera la ferrovia.
Lì ci stanno dei bambini che vendono bottiglie d’acqua, provenienti dal villaggio che si scorge sulla sinistra.
Quando mi vedono impazziscono correndomi dietro.
Io ho fretta e non vorrei fermarmi ma uno di loro mi urla “ Nomer! Nomer! Smatrì nomer!” La targa? “Nomer remont!”
La targa è rotta? Opporcaputtana!
Scendo a controllare.
E sì: la plastica è tranciata in due proprio sopra la targa stessa e rimane attaccata soltanto con il filo della luce.
I bambini ridono ripetendo a pappagallo le mie bestemmie e per evitare di passare alla storia come emulo di Erode mi sposto un km più avanti.
Comincio a svuotare le valigie per tirare fuori il nastro isolante e fare una riparazione provvisoria.
Dalla direzione opposta arriva un bambino a piedi che quando mi saluta , lo fa porgendomi entrambe le mani.
Qui è un gesto diffuso: si fa con i familiari e con le persone degne di tanto rispetto.
Forse perché da solo, a differenza degli altri, lui è molto educato:
mi guarda con i suoi occhi grandi e neri mentre avvolgo il porta targa col nastro ,
rispondendo educatamente alle mie domande e sorridendo ai miei sorrisi tirati.
Dalla stessa direzione arrivano due tipi su una vecchia Ural arancio.
Il tipo che guida , con la faccia e i modi dell’ italico meridionale che si crede un boss,
scende dalla moto camminando a gambe larghe chiamandomi continuamente “maifrend!” .
Dice che sta andando al villaggio vicino ad accompagnare il suo amico che domani si sposa,
di aspettarlo lì così poi vado con lui a Nukus e lì grande divertimento e ottimi alberghi e cibo buono evvai così.
Voi penserete che io abbia aspettato il mio nuovo Maifrend per andare a Nukus con lui, vero?
Sbagliato:
già stavo incazzato, figurarsi quando uno che mi vede in difficoltà arriva ridendo,
chiedendomi sigarette (da me arrotolate, per lui e l’amico) di cui sputacchierà il tabacco a 20 cm da me per tutto il tempo,
e preoccupandosi solo di fare foto col pollice in alto davanti alla mia moto.
MavafanculutueNukus!
Il ragazzino mi dice che c’è una “gastiniza” nel villaggio e mi può accompagnare.
Perfetto: una notte al villaggio è quello che ci vuole oggi.
Lo faccio montare dietro ed entriamo in paese ,
lui mostrandomi la strada io regalandogli un giorno di gloria di fronte agli altri bambini.
Maifrend esce in contemporanea al nostro ingresso e non gli do tempo di dire nulla, neanche mi fermo.
http://www.youtube.com/watch?v=nLKzUMqOjfU
La locanda è in realtà uno spaccio di bibite e qualche alimento,
di proprietà di una signora sui sessanta che veste in abito tipico, la testa coperta con un foulard colorato.
Insieme a lei ci sono una giovane donna, che scopro essere la nuora, e il nipotino sui sette/ otto anni.
La casupola si sviluppa ad L: lo spaccio prende un braccio, sull’altro ci stanno 3camere con due letti ciascuna.
All’incrocio, in fondo, il WC separato da lavabo e doccia in costruzione.
Ci accordiamo per il prezzo, davvero ridicolo, e compro un bottiglia d’acqua gassata e gelata.
Me la godo nello spiazzo lì davanti, seduto su una panca circondato dai bambini, caciaroni e divertenti ma difficili da tenere a bada.
Il più guappo ha una bici con i CD attaccati ai raggi e una sirena polifonica che fa un macello della madonna.
A lui piace la mia moto, a me piace la sua bici: tra tamarri ci si intende.
Ce n’è un altro con la bici nuova nuova e colorata che dice che la sua è più ****.
Un altro mi chiede da fumare e ovviamente gli dico di no perché è piccolo e perché fa male.
-“E tu perché fumi?”
-“perché sono stupido?”
Risata
-“in Italia parlate il russo?”
-“No, l’italiano!”
-“E perché lo parli?”
-“per venire qui da voi! E voi perché parlate russo se siete Uzbeki?”
-“Lo studiamo a scuola!”
Azzo! Lo studiano pure a scuola! Ma non era questa la terra dove nessuno parla russo?
Ridono ai miei gesti, ridono alle mie imprecazioni quando il ragazzino accende la sirena.
Sono bellissimi e non posso fare a meno di ricordare l’infanzia
quando scapicollavo con gli amici per campi e viuzze della periferia di Catanzaro,
chi con la bici nuova fiammante, chi con il più improbabile velocipede possibile, senza distinzione di reddito o classe.
Bella l’infanzia, con i sogni alimentati dalla fantasia e l’occhio vigile e protettivo dei genitori.
Ma francamente ancora più figo essere adulti,
quando i sogni li puoi realizzare e la vigilanza familiare è stata abbondantemente destituita:
e mica ci puoi andare da bambino in Uzbekistan con la moto!
La signora mi invita a mangiare con la famiglia.
Beviamo the e mangiamo una zuppa di verdure e carne tritata.
Mi racconta del figlio che sta via a lavorare in Russia e torna poche volte all’anno.
E questa pare essere storia comune nel villaggio: entrando ho visto molte donne.
Praticamente è un villaggio di donne e bambini.
Evidentemente gli uomini sono costretti a emigrare in massa, chi nelle città più grandi, chi in Russia.
Mentre parliamo i bambini entrano ed escono dalla casa, guardandomi e ridendo , facendomi gesti e boccacce.
A un certo punto uno di loro mi chiama e mi fa vedere che hanno svitato il tappo della ruota posteriore con l’intenzione di sgonfiarla.
Io m’incazzo e urlo a tutti che questo è pericoloso per me,
ed è pericoloso che si attachino alla moto come scimmie (ne avevo trovati un paio appesi al manubrio che tiravano dal lato opposto al cavalletto).
Insomma li sgrido abbastanza pesantemente.
Il ragazzino che mi aveva chiamato se ne va mandandomi a cacare, gli altri se ne vanno offesi.
Spiego alla signora perché li ho cazziati, e lei lo spiega ai genitori dei ragazzini che chiamano lei per sapere cos’ è successo.
Comunque sia la signora e la nuora vanno a dormire e mi lasciano tutta la casa.
Posso prendere dal negozio, avessi bisogno di qualcosa, lasciando i soldi.
Tutto rimane aperto, anche la porta in modo da scoraggiare chi volesse avvicinarsi alla moto.
Così suggerisce la signora.
Io sono stanco e vorrei farmi un bel sonno ma ho un pensiero che non riesco a togliermi.
Ho trattato male quei ragazzini che stavano solo giocando.
Non hanno minimamente idea di quanto possa pesare una moto come quella , con quel carico.
E magari credono che a sgonfiare la ruota me la rigonfio in un baleno, come fanno loro con le loro bici.
E dopo sto cazziatone che ricordo si porteranno del forestiero con la moto nera?
No, dai: il senso di colpa è troppo forte.
Non mi va di essere ricordato come lo ******* arrivato dal nulla a cazziarli.
Non posso rovinare così una bella giornata, mia e loro.
Quindi prendo frasario e dizionario, metto insieme due concetti base e torno da loro, che continuano a giocare a nascondino tra le vie del villaggio.
Appena sbuco tutti si raggruppano intorno a me e gli spiego che non volevo arrabbiarmi,
che l’ho fatto perché non mi so spiegare bene e ho avuto paura per la cosa pericolosa che stavano facendo.
Di non giocare con la moto salendoci sopra perché è pesantissima e se gli cade addosso è capace di schiacciare uno di loro.
Di scusarmi per i miei modi.
Siamo Amici? Sì, siamo amici!
Partono le strette di mano e i sorrisi. Mi sento davvero meglio.
Loro tornano a giocare e mi danno la buonanotte.
Probabilmente avranno fatto pure il circo sulla mia moto quella notte.
Io di certo non ho sentito nulla.
Fa caldo, ma appena tocco il materasso crollo per il sonno e la soddisfazione di passare la mia prima notte in Uzbekistan.
Con un pensiero neanche tanto recondito:
Samat…. Tiè!
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