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Samarcanda? Sì, E Vi Dico Com'è Andata.

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  • Cap 6

    Prima di andare mi fa vedere il loro piccolo orto e i mattoni al sole ad essiccare, impastati con il fango dello stesso terreno, e mi fermo a guardare alcuni dettagli della casa, come la scossalina alla base dell’intonaco. Vedo che anche quello è fatto di paglia e fango. Gli chiedo se da loro piova in inverno.
    -“Sì, nevica pure!”
    -“ E come fate con questo (indicando l’intonaco)”
    -“ Niente. Impastiamo e ripassiamo di nuovo!”







    Non posso non pensare alla italica burocrazia per i lavori edili.
    Saluto anche loro con un abbraccio dopo aver sistemato il cocomero sotto l’asciugamano.

    Vado via portandomi la domanda su cosa sia a fare davvero la felicità di un popolo.
    Questi pensieri durano poco.
    Subito dopo la diga si gira a destra e inizia la lunga strada per Buchara.
    Un rettilineo di sterrato, pietrisco, cemento, asfalto sbriciolato in rifacimento e ampliamento.

    http://grooveshark.com/s/Ikyadarh+Dim/3Hlglz?src=5



    La statale è molto trafficata non solo da auto ma anche da pullman e camion che alzano discreti polveroni.
    E anche da due motociclisti tedeschi in sella a una R1150 che viaggiano in direzione opposta alla mia.
    Vengono da Buchara e stanno facendo un giro abbastanza lungo che mi fanno vedere sulla maglietta che indossa lui.
    Il giro completo non lo ricordo perché un particolare cattura subito la mia attenzione: il giro passa dalla Russia e finisce in Georgia a Tbilisi!
    Chiedo subito se hanno informazioni sulla frontiera di Kazbegi perchè, ormai lo sapete, se fosse aperta per me sarebbe una svolta.
    Loro dicono di aver avuto conferma dallo spedizioniere georgiano che imbarcherà la moto che sì, è aperta.
    Vagamente inizio a paventare l’ipotesi che una provvidenza possa esistere davvero.
    Oltre alle dritte sulle strade che faremo rispettivamente (visto che faranno anche loro la frontiera di Nukus) ci scambiamo i numeri di telefono.
    Siamo d’accordo che il primo che arriva a Kazbegi conferma l’apertura o meno del posto di frontiera.
    Continuo la mia strada che mi dicono i tedeschi sarà così per 200 km. Dopodichè troverò l’asfalto nuovo di zecca

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    • Cap 6

      Duecento km non sono tanti su asfalto, ma su una strada così diventano interminabili.
      Anche per le migliaia di buche, che ogni tanto si è costretti a prendere per sorpassare un camion o un auto che sollevano nubi di polvere così fitte da non vedere a un metro.
      E con sommo dispiacere mi accorgo durante una sosta che il cocomero è esploso su una di queste buche.
      Il succo rosso cola su sedile e catena, che sembra ci abbiano squartato un maiale sopra.
      Decido di mangiare il mangiabile lì sul posto.



      Peccato, speravo di giocarmelo più avanti in un’altra botta di condivisione ma la strada ha voluto così.
      Mi chiedo cosa avranno pensato i passeggeri dei pullman vedendo un motociclista mangiare un cocomero fracassato a bordo strada in mezzo alla polvere.
      Su queste strade si incontra spesso gente rimasta a piedi. Ci sono quattro ragazzi che spingono una macchina. Gli dico che se hanno un tubo posso dargli un po di benzina per arrivare al distributore. Ringraziano con la mano sul cuore, ma il problema non è la benzina.

      Il paesaggio è notevole: la strada corre poco distante dal confine turkmeno e in lontananza si vede un lago che divide i due stati.












      Mi fermo a un chiosco poco distante dal confine a bere qualcosa di zuccherato. Prendo una fanta da 1,5 litri che divido con i tipi al chiosco.
      Beviamo tutti dalla stessa bottiglia e mi sembra la cosa più naturale del mondo.
      Farò un’altra sosta all’inizio della strada asfaltata in una chaichana con qualche camionista russo, bevendo tre the accompagnati da altrettante sigarette e suscitando l’attenzione e i sorrisi dorati della proprietaria, sotto lo sguardo divertito del padre. Finalmente al calre del sole sono di nuovo sull’asfalto.
      Da qui a Bukhara c’è un altro centinaio di km di asfalto tutto sommato buono in diversi tratti invaso dalla sabbia fine per molte centinaia di metri su cui ho sinceramente paura di perdere il controllo dell’anteriore e finire a terra.
      In uno di questi tratti trovo un tir finito completamente fuori strada e insabbiato di traverso.
      Il conducente è seduto a bordo strada con faccia disperata.
      Gli chiedo se ha chiamato i soccorsi e, quando mi dice di non avere telefono, gli offro il mio per telefonare.
      Facciamo tira e molla un paio di volte: sarebbe tentato di usarlo ma forse non sta bene chiedere aiuto a uno straniero.
      Dirò quanto ho visto due volte più avanti: la prima in un posto in cui mi hanno proposto di fermarmi per la notte, l’altra ad un posto di controllo della polizia.
      In entrambi i casi non fotte niente a nessuno del povero camionista.
      Anche se insisto mi rispondono cose del tipo che prima o poi qualcuno lo aiuterà, o che gliel’hanno gia detto. I poliziotti sono più interessati a sentire il rombo della moto e a chiedermi di impennarla. Non mi torna proprio il contrasto tra l’ospitalità per lo straniero e la strafottenza per il connazionale.

      Arrivo a Bukhara che è sera inoltrata.
      Casualmente mi portano al B&B indicatomi dal tipo a Khiva.
      Varcato il grande portone in legno , all’interno della corte su cui si sviluppano tre piani di edificio, ci stanno due moto parcheggiate e attrezzate da viaggione: un’Africa Twin e una Dominator.
      Sono di Andrè e Alexandra, due tedeschi che due anni fa hanno spedito le moto in australia e piano piano stanno tornando verso casa.
      Con loro ci stanno due russi, Slava e un altro di cui non ricordo il nome.
      Vado a prendermi da mangiare e da bere alla bottega dietro l’angolo appena sistemate le cose in camera.
      Ci vado a piedi nudi e la gente del posto mi guarda stranita.
      Mangio con i russi e i tedeschi il mio scatolame appena comprato e facciamo un po di chiacchiere.
      La prima impressione su Slava non è buonissima. E’ grosso, proprio grosso e a tratti arrogante.
      Parla dell’addestramento nell esercito russo e delle missioni in Cecenia per scovare e distruggere i “terroristi”.
      Parla del fatto che per lui Russia vuol dire sua moglie, sua figlia, quanto di più caro abbia al mondo.
      Penso che il mondo è davvero strano e fare un viaggio di questo tipo renda tutto ancora più strano:
      una settimana fa ero in casa con un Ceceno la cui famiglia è stata decimata dall’ esercito russo, ora qui con un russo che a suo dire combatteva i terroristi ceceni.
      Mi chiedo se per caso Slava e Rizo non si siano incontrati in circostanze poco pacifiche e piacevoli.
      L’altro russo e più taciturno, forse perché non parla inglese neanche un po.
      I tedeschi mi consigliano subito di stare lì almeno due giorni, se proprio vado di fretta.
      Dicono che Samarcanda è fattibile in un giorno, mentre Bukhara merita di essere vista con una certa calma.
      Accolgo il loro consiglio mentre saluto per andare a nanna.
      Saranno stati i racconti di guerra, il nazionalismo o semplicemente la stanchezza, ma le cose che più bramo sono una doccia e un letto.

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      • Cap 6

        Capitolo 6



        http://grooveshark.com/s/Charab+Et+Tout/2TCWG2?src=5

        I Tedeschi li ritrovo al tavolo subito fuori dalla porta d’ingresso alle camere dove alloggio.
        Stanno facendo una tranquilla colazione muniti di laptop e ne approfitto per dare un’occhiata alle schede SD dell’ActionCam
        per eliminare i filmati inutili o partiti per caso e fare un po di spazio.
        Andreé somiglia vagamente a Ben Stiller e, stranamente per un tedesco,
        oltre ad avere una mimica molto espressiva gesticola discretamente quando parla,
        effetto forse della necessità di farsi capire per due anni tra australia, sud-est asiatico e paesi ex-sovietici.
        Alexandra invece ha tratti somatici molto “affilati”:
        il naso e il mento puntuti, labbra larghe e sottili che sorridono sempre, a differenza degli occhi sfilati e chiari.
        Sì, sorride sempre Alexandra.
        Anche quando, raccontandomi del loro viaggio, mi racconta di aver conosciuto e
        fatto strada insieme al motociclista giapponese ucciso a Khita (RU) mentre campeggiava da solo,
        fatto di cui sapevo prima di partire e abbastanza noto, credo, tra gli scoppiati viandanti come noi.
        Sorride anche quando mi racconta di aver spedito le foto fattegli alla famiglia come ricordo.
        Sorrideva anche la sera prima quando, parlando io della mia spossatezza dal Kazakhstan in poi,
        mi rimproverava di non aver preso integratori salini, raccontandomi di una coppia di viaggiatori in moto di cui Lei,
        seduta come passeggero, era stata ricoverata non so dove per disidratazione, pur bevendo 5 litri d’acqua al giorno.
        Mi accorgo mentre parla che è solo la bocca a mantenere l’espressione del sorriso.
        Gli occhi variano dal divertito al dispiaciuto, dal seccato al profondo.
        Insomma tutte le sfumature che possa prendere un volto durante l’esternazione di pensieri, sensazioni e sentimenti.
        Forse anche questo è effetto di due anni e migliaia di km in terre straniere.
        In ogni caso hanno entrambi gli occhi buoni e subito nasce una buona amicizia, per come possono essere le amicizie in queste situazioni: fugaci e brevi ma sincere e talvolta profonde.
        Dopo avermi illustrato su cosa concentrarmi in Bukhara e Samarcanda, io e Andreè facciamo un po di manutenzione sulle moto.
        Cerco di pulire il cocomero esploso ma ormai si è solidificato con gioia di mosche e moscerini che girano intorno al veicolo soddisfatte.
        Il filtro dell’aria è abbastanza pulito nonostante i sabbioni attraversati, e di olio non ne ho perso neanche un grammo.
        Do una spruzzata di grasso per catena ai leveraggi del mono dato che cigolano un po:
        forse non è il prodotto più adeguato ma è l’unico che ho.
        Rimaniamo d’accordo di vederci al tramonto in un locale con terrazza di fronte alla piazza del minareto Kalon da cui, a detta loro,
        si gode un ottima vista della città alla luce del sole che se ne va.
        Dopo una doccia inizio il mio giro con borsetta da tranviere e fotocamera d’ordinanza.





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        • Cap 6

          http://grooveshark.com/s/Arouss+Labneh/2TCXAT?src=5

          Gironzolo tranquillamente tra piazze e vie di una città antica di secoli che, anche vivendo ormai di turismo,
          non è stata trasformata in una bomboniera ma vive la sua vita di artigianato e commercio.
          Poco vicino alla locanda si trova la grande piazza Lab-i-Khauz , con al centro la grande vasca d’acqua,
          probabilmente centro della sterminata rete di pozzi che per secoli hanno reso abitabile quest’angolo del deserto del Kizil Kum,
          i cui canali sono ancora visibili qua e là per la città.
          Pare infatti che l’acqua di questa rete, non essendo cambiata così spesso, fosse veicolo di frequenti pestilenze.
          I sovietici misero fine a tutto ciò costruendo una rete di canalizzazioni moderne.
          Non faccio il turista di giorno da quando ho visitato Astrakhan e, se ricordate,
          quella città non mi ha fatto sentire accolto ne soddisfatto della mia condizione solitaria, che pure prediligo in viaggio.
          Qui invece non sento così forte il limite dell’ essere in solitaria.
          Anzi è come se fosse possibile entrarne ed uscirne in ogni momento.
          Mi fermo a comprare delle sigarette in un chiosco che vende altro e mi sento confortato dal sorriso della bellissima venditrice,
          giovane ma in attesa del secondo figlio.
          Attraverso il Bazar Taki- Zargaron (credo) e visito la medressa di Ulughbek,
          non restaurata ma forse per questo ancor più carica di fascino, il cui cortile è occupato da bancarelle di artigiani.











          Decido che i pochi souvenir di questo viaggio li comprerò in questa città,
          non fosse altro per il fatto che questa gente produce da se le cose che vende ed è vera economia locale.
          Passo più avanti a dare un occhiata alla piazza dell’appuntamento di stasera.
          Il minareto Kalon è davvero qualcosa d’ impressionante,
          una delle poche cose che quel mattacchione di Gengis Khan risparmiò quando rase al suolo la città nel 1220,
          circa un secolo dopo la costruzione del minareto.
          Si tratta di una torre alta 47 mt, le cui fondamenta si infiggono per 10 mt nel suolo (contando anche lo strato antisismico costituito da canne).
          Per intenderci 47 metri corrispondono agli odierni 15 piani e mezzo:
          niente di eccezionale per un edificio in cemento armato, ma assolutamente notevole per una torre isolata in muratura portante.
          Ancorpiù considerando che dalla sua realizzazione non ha mai necessitato di restauri.





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          • Cap 6

            Nell’ intento di Arslan Khan doveva essere così alto per gettare l’ombra dell’Islam su tutto il mondo.
            La leggenda vuole che il Khan avesse ucciso in un litigio un Imam.
            Una notte questo venne in sogno al Khan e pretese che la sua testa giacesse in un posto dove nessuno avrebbe potuto calpestarla.
            Detto fatto, venne seppellito sotto la torre.
            Suppongo abbiano fatto presto nella costruzione, altrimenti non credo sarebbe rimasto molto da seppellire.
            Di fianco alla torre stanno, contrapposte a descrivere la piazza, la Moschea Kalon e la medressa di Mir-i-Arab.
            La moschea, di nuovo attiva dal 1991, si sviluppa intorno a un cortile capace di ospitare 10mila fedeli.
            Vi si respira la geometria dell’Architettura Islamica,
            pura e semplice nell’impianto ma di una complessità esponenziale man mano che gli occhi salgono verso il cielo.
            Cerco di stare distante dai gruppi di turisti.
            Soprattutto da quelli che parlano, da ovunque essi provengano, dei ***** loro.

















            Mi accosto invece, senza dire una parola per non farmi sgamare,
            a un gruppo di una decina di italiani che seguono una guida russa che parla loro della medressa antistante la moschea.
            Pare che secondo la leggenda per costruire questa scuola coranica, tuttora attiva e mai chiusa neanche dai sovietici,
            il Khan abbia contravvenuto a uno dei principi dell’Islam, ovvero quello che prescrive ai musulmani di non ridurre in schiavitù altri musulmani.

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            • Cap 6

              Servivano molti soldi per la costruzione della scuola e il Signore dell’epoca non ci pensò due volte a
              vendere parte del suo popolo come schiavi agli infedeli per pagare le spese.





              Ecco: questo è il motivo per cui tante volte rimango perplesso di fronte alle meraviglie del mondo, ai patrimoni dell’Unesco,
              alle perle dell’Architettura, ai palazzi reali e a tutte queste manifestazioni materiali della vanità umana.
              Che sia in nome di Dio, della Nazione, della Libertà, del Popolo, del Progresso.
              In nome di qualsiasi cosa migliaia di persone sono state sfruttate, schiavizzate,
              e fatte morire di sforzi per costruire qualcosa il cui nome rimane quello del Padrone che l’ha voluto.
              Qualche volta si ricorda il nome dell’Architetto, mai si ricordano i Disgraziati morti in cambio di un pezzo di pane per onorare il volere del Padrone.
              E noi ora stiamo qui davanti a scattarci foto uguali a quelle di altri,
              ergendo a simboli di pace le testimonianze della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, oltre che del genio dello stesso.
              Immerso in questi pensieri svicolo verso quello che scopro essere il bazar degli orafi.
              Faccio un giro rapido, visto che pare essere meno suggestivo e mi fermo per un the in una piccolissima chaikhana nel cortile antistante.



              Qui non ci sono turisti e non credo ne vedano spesso.
              Perfetto!

              http://grooveshark.com/s/Qawarma/2TCWpp?src=5

              Sto al mio tavolo a sorseggiare soddisfatto il mio the, dopo aver ordinato anche da mangiare.
              Chiaramente incuriosisco qualcuno e inizia la chiacchierata con un paio di tipi al tavolo a fianco.
              Uno di loro ha il laboratorio di tappeti lì a fianco. Parliamo di tutto un po e sono sorpreso di quanti pochi intoppi ci siano nella conversazione. Certo non parliamo di massimi sistemi, ma riesco lo stesso a portare il discorso sulla loro situazione. E grossomodo mi viene confermato quanto dettomi dal contadino il giorno prima. Sostanzialmente se non lasciano il paese per vedere il mondo è per una questione di valore della moneta. Solo i ricchi Uzbeki possono permettersi viaggi in Europa. Pare non ci siano grossi problemi per i visti. Mi confermano che lo standard di vita è abbastanza dignitoso. Certo, ci sono i ricchissimi e qualcuno è più vicino alla povertà. Ma finora non ho visto un mendicante che si possa definire tale e pare che il problema dei senzatetto non esista. Per cui o il governo li prende di notte e li brucia senza lasciare traccia, o effettivamente in questo paese c’è davvero il rischio di vivere una vita dignitosa anche senza mezzi adeguati. Certo non si può parlar male del governo o della polizia, ma non ho sentito tensione o falsità nelle loro risposte, né li ho visti ammiccare tra di loro per concordare al volo una risposta che non fosse troppo esplicita. E parliamo di un paese ampiamente servito da internet, dove il russo si insegna a scuola e quasi tutti gli operatori turistici e commercianti coinvolti in questo mercato parlano inglese. Arrivo alla conclusione che se hai poco di cui lamentarti la censura non pesa poi così tanto, evidentemente. In ogni caso, finisce a pranzo pagato e foto insieme. Quando gli chiedo l’indirizzo per mandargli la foto, mi danno l’indirizzo fisico del laboratorio di tappeti. Non hanno internet. Mi faccio scrivere l’indirizzo sul taccuino, ma inutile dire che quella foto non è mai stata ne stampata ne spedita. Càpita, ogni tanto!



              Da lì è molto vicina la città regale fortificata di Ark, risalente al V secolo e abitata fin quando i Russi non la bombardarono nel 1920.
              Ci giro un pò intorno prima di trovare l’ingresso, sorvegliato da due poliziotti di cui uno, gentilmente,
              mi stringe la mano e mi dice di nascondermi dietro una rientranza nel muro.
              Ho gia capito dove vuole arrivare e ci sto.

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              • Cap 6

                Appena sparisce un gruppo di turisti dall’altra parte della strada mi fa segno di entrare rapidamente e, appena girato l’angolo dopo l’arco di ingresso mi dice che non potrebbe farmi entrare perché è in restauro e pericolante, ma visto che sono solo può fare un’eccezione retribuita.
                Quanto retribuita? Una decina d’euri. Va benissimo!





                Allora saliamo, mentre mi descrive rapidamente i vari ambienti che attraversiamo :
                la Moschea del Venerdì e la Corte per le Udienze e le Incoronazioni.







                Purtroppo gli altri ambienti come gli alloggi dei ministri sono chiusi e non accessibili, ma per me va bene lo stesso.





                Mi va meno bene che mi metta fretta ogni volta che mi fermo a fare foto.
                Faccio però in tempo a fotografare un muro in restauro che mi rivela la tecnica costruttiva:
                una sorta di muratura listata orizzontalmente di mattoni posati in verticale e armata da pali in legno, successivamente intonacata.

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                • Cap 6

                  Arrivati di fronte a una staccionata chiusa con un lucchetto di cui possiede la chiave,
                  la Guardia esige il pagamento e in cambio mi da 15 minuti per osservare il panorama e fare tutte le foto che voglio.
                  Con la raccomandazione di non sporgermi troppo perché pericoloso(e anche perché potrebbero vedermi, credo).
                  Pago quanto pattuito e mi godo lo skyline imperioso di moschee, medresse e minareti sovrastante un tappeto di abitazioni basse e catapecchie.



                  Scatto le mie foto e rinuncio a meditare su quanto vedo: sono circa le tre di pomeriggio e il sole non picchia, frusta letteralmente.
                  La Guardia ringrazia me , io ringrazio lui.
                  Oltre a ricevere la raccomandazione di non fare con nessuno parola del favore ricevuto.
                  Gli do la mia parola.

                  Proprio di fronte c’è una moschea con davanti un grande portico.





                  Vado a sedermici per riposare all’ombra ma il venditore di piattini in metallo comincia a scocciarmi con la sua insistenza e allora decido di entrare.
                  All’interno ci sono tre uomini che discutono, seduti al centro sotto la cupola a voce normale, né alta ne bassa,
                  mentre un altro sta in disparte sonnecchiante.
                  Mi siedo appoggiando la schiena contro il muro e, coccolato dall’aria più fresca, mi addormento.
                  Quando mi sveglio per il mio stesso russare mi accorgo che gli uomini, accortisi del mio riposo,
                  stanno parlando tutti a voce decisamente più bassa rispetto a prima.
                  Uno mi vede sveglio e fa un cenno di saluto con la testa che ricambio con un sorriso, portandomi la mano al cuore.

                  Esco ristorato nell’afa e dopo 20 metri sosto in un ristorantino a farmi un paio di the, chiacchierando con un cameriere.
                  Ritornerò poi in locanda a prendere soldi per i souvenir che ho individuato e per la cena con i tedeschi.
                  Non senza prima fare qualche scatto a delle venditrici cercando, credo con scarso successo, di non essere visto.









                  Da una signora, parlante un perfetto inglese, comprerò due foulard in seta e cotone, uno per me uno per la mia metà, mentre per le donne di casa prenderò delle piccole lampade d’Aladino in ottone lavorate a mano.
                  In entrambi i casi sarà un piacere contrattare al ribasso come si può fare solo nei paesi islamici.

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                  • Cap 6

                    Mentre vado all’ appuntamento coi Crucchi incrocio i Russi, anche loro invitati.
                    A dirla tutta sono infastidito della cosa perché non ho nessuna intenzione di passare la serata con militaristi convinti e neanche tanto teorici.
                    Ma questa è, e mi tocca.
                    Saliamo insieme la scala a chiocciola del locale che porta alla terrazza e la vista è davvero piacevole,
                    ma più di questa è gradevole la sensazione dell’aria che si fa fresca mentre il sole va ad abbrustolire qualcuno più a ovest, lasciandoci finalmente respirare.



                    Faccio vedere i miei acquisti ad Alexandra che, sorridendo con aria di sufficienza, mi dice che ho pagati troppo i foulard.
                    Sorridendo le rispondo che questi soldi non mi avrebbero reso più ricco, ma forse avrebbero fatto stare meglio la signora che me li ha venduti.
                    Ah…. E sorride anche quando mi dice che lei non avrebbe pagato per entrare nella città fortificata, perché il tipo si è intascato i soldi.
                    Benedetta Crucca, e riditi sto *****!
                    Gliel’ho spiegato, ma non credo l'abbia capito, che quello non è assimilabile a pagare una mazzetta o il diavolo sa cosa.
                    Non c’è stato verso di convincerla.
                    Nel frattempo, parlando parlando, cominciano a starmi sempre più simpatici i russi.
                    Scopro che Slava ha solo fatto il servizio militare di leva e, viste le sue dimensioni, l’hanno spedito nei corpi d’assalto.
                    E non credo che all’esercito russo si possa dire di no.
                    Sa di non aver fatto cose buone quando era lì, ma quella era la situazione e quello c’era da fare.
                    Mi torna in mente il libro “Caduta ibera” di Nicolai Lilin,
                    una sorta di autobiografia (se pur molto romanzata) della sua esperienza nell’ esercito russo come cecchino contro i Ceceni.
                    L’autore condanna la guerra ma non chi la subisce:
                    in primo luogo i civili, ma anche guerriglieri e soldati, vittime dello stesso gioco dettato dal potere.
                    Ed è un gioco a cui devi giocare bene, una volta che ti ci hanno buttato dentro.
                    Che tu appartenga a una comunità aizzata da un capetto religioso o ad un plotone dell’esercito,
                    comunque c’è qualcuno che, standosene col **** al sicuro, sta disponendo della tua vita per i suoi fini.
                    E in fondo la storia di questo ragazzo è uguale, come quella di altre migliaia.
                    Avrà vissuto l’Inferno in Terra, uccidendo e cercando di non essere ucciso,
                    avrà visto gente squartata da granate e razzi agonizzare senza speranza.
                    E tra questi ci saranno stati bambini, padri, vecchi depositari di sapienza, madri.
                    Avrà visto cos’è uno stupro di guerra e in cuor mio spero che non l’abbia praticato.
                    Avrà avuto i suoi problemi a ritornare alla vita normale, avrà avuto incubi tremendi e forse ancora li ha.
                    Anche i suoi occhi sono buoni, piantati in un faccione da bambascione cresciuto a vodka,
                    con un corpo così grande e forte e capace di uccidere un uomo a mani nude,
                    ma evidentemente desideroso di altri e pacifici tipi di contatto,
                    come l’abbraccio e le pacche sulle spalle di un amico, il bacio della figlia,
                    la fusione insieme mistica e prosaica del suo corpo con quello della donna amata.
                    Nella vita da civile Slava ha una laurea in geologia e lavora per una società petrolifera russa in cerca di petrolio in Uzbekistan,
                    mentre la moglie e la figlia vivono a un centinaio di km da Samara.
                    La lezione del giorno, che credevo di aver già imparato dalle mie letture e dai miei viaggi precedenti,
                    è che non si può giudicare chi ha vissuto una guerra se non se ne è vissuta una sulla propria pelle.

                    Ci ritroviamo a scherzare bevendo un paio di birre a cui aggiungiamo del sale per recuperare quanto sudato,
                    io Slava e l’altro Russo, mentre i tedeschi vanno a the.
                    L’Altro Russo è il vice boss di una società non meglio identificata,
                    che a questo punto potrebbe anche essere la stessa per cui lavora Slava.
                    Tende a fare il misterioso e a sottrarsi agli scatti.
                    E’ comunque molto simpatico anche lui.
                    Decidiamo di andare a mangiare al ristorante della piazza Lab-i-Khauz.
                    I russi dicono che vogliono offrirci loro la cena e, alle mie proteste, l’Altro Russo risponde :
                    -“ non c’è problema: qui paghiamo noi perché siamo di casa. Quando verremo in Italia pagherai tu per noi!”
                    Scroscio di risate: si era appena parlato di prezzi e valore delle monete nazionali.

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                    • Cap 6

                      Il posto pare essere uno dei migliori ristoranti della città, nonché evidentemente il più pacchiano.
                      La serata scorre tranquilla e serena.
                      I Russi ci aiutano a scegliere cosa mangiare.
                      Beviamo tutti birra, ma quando si tratta di brindare con la vodka l’unico a non tirarsi mai indietro sono io:
                      la megasbronza da adolescente in Ucraina mi ha aperto gli occhi sul mondo della vodka a cena.
                      Ed è un mondo bellissimo: va giu, non te ne accorgi e non ti distrugge.
                      Diverse volte durante la cena Slava mi prende per il ****, parlando di me come gran seduttore di donne.
                      Questo perchè, usciti dal locale con la terrazza, una venditrice di ceramiche ha insistito per regalarmi una ciotola fatta da lei,
                      dopo che le avevo detto di aver gia fatto gli acquisti dei souvenir.
                      E’ stata davvero gentile e siamo rimasti a parlare un po. E l’abbiamo fatto in Italiano.
                      Lei è tagika, cresciuta in Uzbekistan, divorziata a 26 anni e parla italiano ( oltre a inglese, tedesco, spagnolo e francese)
                      avendolo imparato dai turisti a cui vende i pezzi che produce.
                      Mentre questo succedeva, avrei voluto fosse presente Samat per sapere cosa avrebbe detto.
                      -“Questo è il mondo reale, Samat, non il Kazakhstan!” gli avrei detto io.



                      Finiamo la nostra serata fumando qualche sigaretta nel cortile della locanda.







                      Ci ritroviamo la mattina successiva in cortile tutti allo stesso tavolo: oggi io parto per Samarcanda, i Tedeschi per Khiva.
                      E’ destino di questo viaggio di beccare sempre gente che va dall’altra parte, però è gia tanto incontrarla.
                      I Russi, soprattutto Slava, hanno un espressione un po più tristanzuola.
                      Tra pochi giorni non ci saranno più così tanti turisti alla locanda e immagino ci sarà da rompersi abbastanza i cabbasisi.
                      I Tedeschi sono attrezzatissimi e hanno caricato le moto come muli, svegliandosi almeno due ore prima.
                      Gli rimane da mettersi soltanto l’abbigliamento da Cross: corpetto con le armature, pantaloni con protezioni e stivalazzi da Enduro pesante.
                      Gli faccio notare che forse è un po eccessivo, viste le temperature.





                      Alexandra (sorridendo ma già lo sapete) risponde che se ti cade la moto così carica su una gamba, sono problemi non da poco.
                      E lo so, e so anche che io sono sportivissimo con i miei anfibi da guardia giurata e senza neanche le protezioni alle ginocchia.
                      Di sicuro io se cado mi sfracello qualcosa. E non è un bel pensiero.
                      Baci, abbracci e i Tedeschi vanno per la loro strada.



                      http://www.youtube.com/watch?v=araE9...ature=youtu.be

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                      • Cap 6

                        Io rimango a farmi altri tazzoni di inutile Nescafè, approfittando della compagnia di Slava che oggi andrà a lavorare più tardi.
                        Però arriva anche per me il momento di andare, e lo faccio con una punta di dispiacere in fondo al cuore.
                        Avrei voluto più tempo per girare meglio nei vicoli della città,
                        prendermi una sbronza seria con i miei nuovi amici russi,
                        farmi raccontare le storie della città più sacra dell’Asia Centrale dai vecchi del posto,
                        andare al mercato a contrattare fino alla morte per qualcosa di cui non ho bisogno per il gusto di farlo.
                        Ma il tempo è tiranno e io, anche se a migliaia di km da casa, sono suo schiavo.
                        Saluto Slava affondando nel suo abbraccio e vado via mentre mi riprende col suo telefono.







                        La strada oggi è breve: solo 250 km di asfalto buono, mi hanno detto i Tedeschi.
                        Vado ancora verso est, ancora col sole in faccia.
                        Fuori dalla città, dopo qualche decina di km passo davanti all’aeroporto nel nulla di cui mi avevano parlano i Crucchi con grande stupore,
                        forse perchè non abituati alle cattedrali nel deserto tipiche del sud Italia.
                        Sono immerso nei miei pensieri che volano a 110 sull’ asfalto buono.
                        Non mi rendo conto che, per quanto nel nulla, ci sono delle case dall’altra parte della strada.
                        Me ne accorgo solo quando, dall’ombra di un albero, sbuca con scatto felino un poliziotto che mi ordina di fermarmi.

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                        • è bello leggere come hai relazione con gli abitanti di quel paese, hai fatto bene ad imparare almeno le basi della lingua russa. Belle anche le foto
                          bisogna godersi il viaggio e non pensare solo alla meta

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                          • racconto BELLISSIMO !!!!!!!! ....

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                            • Cap 6

                              Capitolo 6



                              Accosto smadonnando mentre maledico la mia distrazione.
                              Le guardie , come è chiaro che sia, mi contestano una velocità pari a quasi il doppio di quella limite,
                              supportando l’asserzione con la prova schiacciante di una mia foto con su scritto 115 kmh.
                              Provo a difendermi dicendo che cazzarola non ci stanno i cartelli, che ne so io qual è il limite.
                              Mi viene ripetuta la regola aurea trasmessami due giorni prima: se vedi case , anche una, è centro abitato e devi andare a 60kmh.
                              Inizia una lunga pantomima:
                              -“la multa sarebbe alta, ma ti sto applicando il minimo, che comunque sono bei soldi, ma tanto sei italiano, però c’è un modo per pagare meno.”-
                              -“ Sì sono italiano, ma non c’ho na lira, cerca di capire, tu approfitti perché hai il mio passaporto, io non sono ricco.”e tutte le amenità del caso.
                              Mi vengono in mente le parole di Alexandra la sera prima quando (sorridendo,è chiaro) mi diceva che loro in due anni non hanno mai pagato una mazzetta. Avevano una copia plastificata di tutti documenti e davano quelli in mano alla polizia.
                              In questo momento mi verrebbe da risponderle che grazie al ***** che non hai pagato mazzette:
                              in due è più facile dire di no agli ******* in divisa.
                              Se stai da solo sei semplicemente uno straniero contro due o tre sbirri e c’è poco da fare.
                              Alla fine, per stanchezza e sconforto, pago sta quindicina d’euri e ridivento proprietario della mia identità internazionale.
                              Ricomincio il mio viaggio ad andatura davvero turistica, cercando di leggere quest’imprevisto come la mano del fato che mi dice di godermi questi km in tranquillità, senza correre ne forzare la mano al tempo.
                              E così faccio, fermandomi più volte. Una volta per benzina, accolto da tutta la fila in attesa per guasto alla pompa e fatto passare davanti a tutti.



                              Prendo un the da qualche parte al fresco, e dopo pochi altri km intravedo una strada con un tot di piccole chaikhana che allestiscono barbecue per l’ora di pranzo.
                              Mi fermo da quelli che mi paiono più simpatici e vengo accolto come il Cugino d’America.
                              Uno dei ragazzi che gestisce mi fa segno di accomodarmi dentro.



                              E’ un piccolissimo bugigattolo con una porta che va su un retro, e quando gli occhi si abituano al cambio di luminosità riesco a vedere
                              due tavoli pieni di carne in piena macellazione: su uno un mucchio di pezzi di pollo e di manzo,
                              sull’altro (in realtà un frigo a pozzetto per bibite) un’ intera coscia di bovino ormai disossata.



                              I muri e il pavimento sono davvero lerci ma questo non ferma il languore che sale dallo stomaco, anzi pregusto un piatto fantastico .
                              Il tipo mi indica un tavolo all’interno per sedermi ma le mosche continuano a trovarmi interessante nonostante il tanfo dolciastro della macellazione,
                              di certo non invitante, e ritengo più opportuno sedermi fuori sotto un ombrellone.



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                              • Mangerò un numero imprecisato ed abbondante di buonissimi spiedi di pollo speziato innaffiati da una birra grande e gelata.
                                Dovrei cominciare a seguire il consiglio dei tedeschi e prendere degli integratori, ma i farmaci non sono buoni per socializzare coi locali.
                                Mentre consumo il mio pasto tutta l’umanità del posto si trova a passare da lì e con tutti c’è uno scambio di battute, una domanda, una stretta di mano, qualcuno più sfrontato si prova il casco.
                                So già che non ci sono fogne
                                (visto che da Rostov in poi ogni esercizio pubblico ha per servizio un baracchino di legno con un buco a terra che sembra l’ingresso degli inferi)
                                ma ora noto i piccoli canali a bordo strada dove finisce di tutto,
                                dall’acqua di cottura dei cibi all’acqua del lavaggio dei pavimenti al piscio dei bambini (ma quella è acqua santa).
                                Mentre sto lì a darmi in pasto alle curiosità dei villici (che poi sono le stesse in tutto il mondo)
                                mi viene da pensare che in fondo sono per loro una specie di Uomo dei Sogni.
                                Qualcuno in questo viaggio mi ha detto :-“ty romantichnyi putishestviennik!” “sei un viaggiatore romantico!”.
                                Per loro è molto strano che uno si spari migliaia di km da solo su una moto per venire nella loro terra.
                                Senza biglietti, treni o aerei, senza la sicurezza apparente di un abitacolo d’automobile il Viaggio sublima nella sua stessa essenza,
                                e questa gente semplice coglie il fatto associandomi ai cavalieri della tradizione timuride.
                                In fondo questi sono i discendenti di orde nomadi e io sono per loro una figura che arriva dritta dal passato e,
                                parcheggiata la macchina del tempo chissà dove, vaga tra di loro cavalcando su due ruote.
                                Ai loro occhi giro il mondo sul mio cavallo d’acciaio,
                                fedele a Tamerlano ma ribelle alle leggi che mi vorrebbero sposato e con prole da mantenere, sprezzante delle comodità domestiche come dei pericoli del mondo.
                                Consapevole del fatto che sono tutte cazzate autocelebrative di una mente spossata dal caldo, decido comunque di prendermi il buono di queste situazioni, ovvero la stima e l’ammirazione che mi circondano e i conseguenti rispetto e ospitalità.
                                La strada scorrerà tranquilla fino a Samarcanda.



                                L’ingresso epico che immaginavo alla meta del mio viaggio non c’è stata:
                                sulle mappe opensource è segnato il bed & breakfast suggeritomi dai tedeschi e ci arrivo senza perdermi neanche ad un bivio.
                                Lo ammetto: è stato un arrivo quasi noioso, sembrava di arrivare a casa a Centocelle dopo essere uscito prima da Studio, con tanto di traffico sulla Casilina. Percepisco l’importanza del momento dal fatto che invece dei palazzoni della periferia romana,
                                a guardarmi ci sono complessi di mausolei rivestiti di maioliche e Lui, il complesso del Registan.

                                http://www.youtube.com/watch?v=AcEfDuK8T0w

                                No, di sicuro non sono a casa, sono arrivato a Samarcanda , che non è poco, e gli imprevisti e i colpi di scena già ci sono stati.
                                Mi merito un tranquillo taglio di traguardo, checcazzo!
                                Davanti al portone della locanda trovo parcheggiato un Land Cruiser attrezzato di fari e verricelli con svariati adesivi.
                                Quando entro, nello stretto corridoio che porta al cortile della casa, c’è una GS 1200 che ha l’aria di stare facendo il giro del mondo.
                                Ovunque alle pareti adesivi del Mongol Rally e altri gadget del genere.
                                Penso subito di aver trovato il posto giusto e penso che, essendo le quattro di pomeriggio, oggi sarà una giornata strameritatamente rilassante .
                                Mi accordo con il Tipo della locanda, parlante un ottimo inglese, il quale mi accompagna nel cortile dove,
                                sotto due lunghe verande, trovano posto grandi tavoli, panche sedie e quanto necessario per stravaccarsi in tranquillità.
                                Mi accomodo vicino a un polacco dai tratti asciutti e nervosi, col viso bruciato dal sole su cui brillano due occhi azzurri come il ghiaccio.
                                Occhi che pianta fissi nei miei mentre succhia come fosse brodo l’anguria che il proprietario ci porta, masticandola a bocca aperta mentre in inglese mi racconta del suo viaggio: la famiglia in vacanza in Ucraina, lui in viaggio con gli amici a fare i cazzoni in fuori strada attraverso l’Asia Centrale.
                                Hanno spaccato un semiasse e adesso stanno trovando un posto economico dove fermarsi per la riparazione. Ma la vedono nera. Dice di essere roso dai sensi di colpa perché se hai una famiglia da mandare avanti non vai a fare ste cazzate.
                                Dalla soddisfazione con cui racconta la sua avventura,
                                ho tutta l’impressione che se la stia spassando alla grande e dica queste cose giusto per salvare un minimo di dignità paterna.
                                Mentre continuo a ingurgitare litri di the e chili di frutta comincio a sentirmi appagato e rilassato.
                                Il Polacco mi dice che non dormiranno lì stanotte ma andranno non so dove.
                                Saluto il polacco e decido che è l’ora di prendere possesso della mia reale stanza di fianco alla reception.
                                E’ veramente squallida e la doccia è praticamente un tubo di gomma da cui esce un filo d’acqua,
                                ma per me è davvero una reggia ed è tutto quello di cui ho bisogno.
                                Non posso non pensare con un sorriso agli hotel 5 stelle che progettiamo a Studio.
                                Affido la mia catasta di panni da lavare al Tipo con la raccomandazione di farli prima possibile, che forse domattina riparto.
                                Cambierò idea entro un’oretta.
                                Dopo una doccia e 10 minuti di collasso a letto.
                                Mentre aspetto temperature più favorevoli a una passeggiata smantello i bagagli dalla moto e provo a dare una pulita dal succo di cocomero ormai cristallizzato sul portapacchi usando uno straccio e una pompa che sta proprio lì.
                                Do una sbirciata alla BMW e noto alcuni dettagli che mi anticipano qualcosa del Finlandese in giro per il mondo.
                                Noto subito la foto di una donna dai tratti orientali, forse Kazaka, attaccata al parabrezza.
                                Il nastro telato alle leve di frizione e freno mi dice della sua abitudine di guidare dove fa molto freddo,
                                e il fatto di averlo lasciato lì mi fa pensare che prevede di visitare posti altrettanto freddi.
                                Monta anche lui le k60 della Heidenau e sono consumate a metà, quindi ha fatto un bel po di strada.
                                Alla fine sbuca dal portone e facciamo conoscenza.
                                Non ricordo il suo nome, ma è secco di costituzione, pelle chiara e occhi azzurri da bonaccione.
                                Si presenta in canottiera e pantaloncini sfoggiando un fisico da cura ricostituente.
                                E’ molto socievole, come lo è necessariamente chi sta in viaggio in solitaria da molto tempo quando incontra un suo simile.
                                E’ partito qualche mese prima dalla Finlandia, dopo essersi licenziato dall’ambìto posto di ispettore di produzione (o qualcosa del genere) alla Nokia,
                                aver venduto tutto e preparato la moto per un giro del mondo.
                                Viaggia con pochissimi vestiti e una delle borse laterali è quasi piena di apparecchiature fotografiche.
                                Sta facendo sosta a Samarcanda per qualche giorno, mentre gira per uffici in cerca di un modo per prolungare il visto:
                                vorrebbe fare un giro in un fantomatico mercato di ricambi per veicoli dove pare si trovi di tutto.
                                Nei suoi piani c’è di attraversare il Kirgizistan per poi stare una settimana in Cina, dove lo aspetta un fixer che gli farà da guida.
                                Il Finnico diventa subito il mio eroe.
                                Stimo profondamente la sua scelta di mandare tutto a fanculo e partire per vedere il mondo senza nessuna certezze,
                                anzi forse proprio perché di certezze non ne ha e se ne fotte.
                                Dice che per ora non gli interessano le sponsorizzazioni:
                                BMW lo ha contattato e sono in mezza trattativa, ma per ora si limitano a seguirlo con interesse.
                                A lui non fotte molto di quest’argomento. Per ora non vuole che questa cosa diventi un lavoro con tutti gli obblighi che ne conseguono.
                                Vuole solo godersi il viaggio e girovagare con i suoi tempi.
                                Gli chiedo come si trovi a fare queste strade con quel bisonte di moto, come si comporta nella sabbia.
                                Con mia sorpresa mi risponde che sì è pesante ma non quanto sembra, è abbastanza maneggevole e anche quando, inevitabilmente, si appoggia a terra nei passaggi difficili è facile rialzarla perché i cilindri sporgenti evitano che vada giu orizzontale.
                                A differenza della mia Tenerè che si corica proprio e col ***** che riesco ad alzarla da solo.
                                Ha dormito nel deserto in Kazakhstan e mi dice di non essere stato da solo.
                                Capisco la foto sul parabrezza e l’espressione vagamente triste che proprio non riesce a dissimulare.
                                Ok, è lui il vero uomo dei sogni, quello che vaga sul suo cavallo d’acciaio fottendosene di tutti e pure di Tamerlano.
                                Non posso che nutrire ammirazione profonda per una scelta che io, dopo anni di sogni al proposito, non ho ancora avuto il coraggio di mettere in atto.
                                Sì, senza dubbio il mio Uomo dei Sogni è lui.

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