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Mah... spero sia un complimento
in ogni caso.....
inizio il 7 capitolo che credo di compkletare per questo weekend.
Dopo ce ne sarà un altro ancora e poi basta che ci siamo tutti un po rotti le palle di sta storia
Allora comincio:
Mi sveglio che il sole ancora non si vede, ma già illumina il cielo quanto basta per farmi aprire gli occhi.
Contrariamente a quando mi sono addormentato il cielo è coperto e questo mi da la misura di come possa cambiare rapidamente il tempo da queste parti. Kevin sta smanettando sulle loro moto da un pezzo, rigirandole come biciclette per quanto sono leggere.
Orgoglioso della mia moka offro un caffè italiano ai miei compagni che gradiscono quello e pure il bis.
Questi ragazzi over 50 mi fanno una tremenda simpatia mentre mi parlano della preparazione che hanno fatto per il viaggio:
palestra, due settimane di addestramento militare, viaggiano con delle buste di cibo liofilizzato che chiamano “russian portions” .
Sono muniti di segnalatore satellitare SPOT , hanno qualcuno che gli cura gli aggiornamenti su twitter, facebook e sul loro blog.
Hanno un navigatore Garmin strafico, maglie con le protezioni e quant’altro. Me li prendo un po per il **** anche se mi sento un po’ sotto equipaggiato. Mentre parlano ho come l’impressione di stare con Boorman e Mc Gregor in Long Way Round.
Raccogliamo tende e bagagli mentre un pastore transita col suo gregge, provocandomi una fitta al cuore che non riesco a decifrare.
Dopo aver fatto benzina ci fermiamo a mangiare qualcosa mentre inizia a piovigginare.
I proprietari del posto sono davvero onorati di cotanti clienti e il ragazzo corre a mettere l’intrattenimento musicale che qui, come in tutto il Kazakhstan, consiste nella già citata tamarrissima dance del *****.
Musica che gli faremo levare alla prima occasione, visto che sono le 9 di mattina e stiamo ancora più che rintronati.
Ci spariamo una colazione che praticamente è un pranzo per quanto è abbondante e carnivora.
Credo di aver bevuto almeno un litro di the, sperando nell’effetto della caffeina che a quanto pare scarseggia nelle loro miscele.
Siamo nella parte centrale del paese, decisamente più verde e popolata da gente senza dubbio più cordiale di quella incontrata a ovest.
E questa è la buona notizia.
Quella brutta , che mi getta per un attimo nello sconforto, è che con l’ultima frontiera siamo andati avanti di un’altra ora rispetto all’Uzbekistan: se questo è un ritorno, proprio non ci siamo .
Ripartiamo alla volta di Shymkent attraversando caotici villaggi e placide campagne, battendo una statale a 4 corsie dall’asfalto più che decente: la famigerata M32 che in questo tratto è molto veloce e tutto sommato ben tenuta.
Qui potrei correre un po, ma rallento sempre per aspettare gli Inglesi che, sulle loro motine cariche come muli, a 80kmh sono già a manetta.
Si scusano per il loro essere d’impiccio ma tanto durerà poco: dopo appena 150 km arriviamo a Shymkent dove le nostre strade si dividono.
Provo un magone non indifferente a lasciare i miei nuovi amici e proseguire da solo.
Di nuovo vorrei non dover subire la tirannia del tempo.
Ci salutiamo augurandoci il bene più sincero e promettendoci di rimanere in contatto per andare insieme da qualche parte prima o poi.
Il magone dura poco: la ricerca di una scheda sd per l’actioncam e di un apriscatole mi fanno dimenticare i romanticismi e mi rilanciano nella bestemmia quotidiana del viaggiatore solitario. Paradossalmente trovo subito la scheda, ma l’apriscatole risulta più difficile da reperire.
Ho un botto di scatolame con me e qui ‘ste ***** di linguette incorporate alle scatole non sono previste da nessun produttore.
Dopo aver fatto un po di show disegnandolo a penna prima e chiedendolo a voce dopo, decido che me ne fotto e in qualche modo farò. L’instant roadbook prevede di arrivare fino a Kizylorda per poi il giorno dopo raggiungere Aral e magari, dopo studiata un po la situazione, vedere se sia il caso di dormire vicino al lago prosciugato.
Ridimensiono rapidamente il piano appena mi rendo conto che poco dopo Shimkent la strada diventa un lungo rettilineo sterrato in procinto di ricevere l’asfalto.
Per ora è un grande cantiere e si usano le piste che corrono sui due lati e di volta in volta la attraversano.
Ogni tanto è possibile percorrere la strada nuova ma puntualmente bisogna ridiscendere sulla pista.
Tutto sommato il fondo è buono, abbastanza duro anche se sabbioso. Solo in alcuni punti, con chiazze di sabbia più fine,la paura di cadere si fa sentire forte.
Il vero fastidio è la polvere sollevata da auto e camion che si appiccica addosso e nei polmoni.
Sarà un lungo pomeriggio di sterrati circondati da un paesaggio non molto diverso da quello uzbeko, con alberi e qualche corso d’acqua.
Gli incontri della giornata saranno soltanto tre.
Il primo, in un punto imprecisato prima di Turkistan, dove mi sono fermato per riposarmi dal vento e dalla polvere in una chaikhana per strada.
Tra tutta l’umanità del posto si è fermato a parlare con me un uomo sulla trentina col fare del piccolo boss del posto,
vestito inspiegabilmente di candido bianco in mezzo a tutta quella polvere, conferendo alla scena un che di surreale.
Parlando del mio viaggio rimane sorpreso dal fatto che possegga una tenda e la usi.
- “Ma è pericoloso dormire in tenda!”
- Perché pericoloso?
- Ci sono i banditi!
- Non ne ho visti ancora. Tu sei un Bandito?
- .....
- Dormo in tenda ma mai se sono da solo
- Ah bene. Dimmi… E’ un Rolex il tuo orologio?
(indicando con un gesto del mento il mio orologio in plasticaccia preso da decathlon a 10 euro)
- Un Rolex? Che dici? È un brutto orologio made in china!
- E allora se non è un rolex regalamelo!
- E perché?
- Souvenir!
Lo guardo fisso e incredulo per una manciata di secondi, dopodiché gli propongo uno scambio:
- Ho bisogno di un apriscatole. Trovami un apriscatole e ti do il mio orologio.
- Un apriscatole? Non so dove trovarlo!
- Neanche io! Allora niente orologio per te!
Finisco il mio the dopo aver spiazzato il mio interlocutore che continua a parlare di me con una ragazza del posto,
la quale a sua volta continua a guardarmi sorridendomi e arrossendo sempre di più.
Prima che comincino anche qui a propormi giovani spose volo via verso Turkistan, dove mi fermo al volo giusto per vedere un mausoleo che è l’unica opera di architettura storica visibile in Kazakhstan centro-occidentale.
Qui lo stupore per la gentilezza della custode del mausoleo viene subito demolita dall’ accoglienza della donna all’ingresso dei cessi pubblici che, appena mi vede entrare, mi dice secca “PAGA!” .
Io alzo le mani in segno di resa e pago per il primo cesso vero dopo giorni: alla turca ma sempre cesso.
Bello, piastrellato, pulito e profumato. Una vera goduria!
Subito dopo Turkistan vengo fermato dagli sbirri su un rettilineo in mezzo al verde,
nulla di costruito intorno, mentre vado a non più di una 60ina all’ora.
Sempre la stessa storia: anche se non ci sono i cartelli e non correvi, comunque lo vedi che ho i tuoi documenti in mano, per cui dammi i soldi.
Gli sbirri sono in due, e uno sembra rendersi meglio conto del fatto che non ho una lira per davvero.
Non ricordo la cifra esatta che mi viene chiesta, ma corrisponde a tutto quello che ho in contanti di moneta locale.
Da coglione qual sono gli propongo addirittura di non prendersi tutto ma di darmi il resto.
Il tipo mi risponde “Antonio, non sono un bancomat!” .
Io lì mi incazzo e alzo la voce:
“Io sono Italiano , ma non mi chiamo Berlusconi! Non sono ricco e non ho fatto niente! Dammi i miei documenti e fammi andare via!Se ti do tutti i soldi che ho, poi cosa faccio?”
lo sbirro buono capisce e quasi impone a quello ******* di ridarmi i documenti.
Ringalluzzito dal successo contro gli ******* in divisa riprendo la strada e decido di fermarmi al tramonto in un paesino nel nulla di nome Birlik (almeno Google Earth dice così).
Faccio un giro per vedere se esiste una locanda o qualcosa di simile ma non trovo nulla.
Decido di accamparmi poco fuori dal paese ma questa scelta non mi farà stare tranquillo:
sono molto visibile e tutti in quella desolazione avranno sentito il rombo della moto.
E infatti mentre sto lì a riscaldare la carne in scatola arrivano dei bambini del villaggio a urlarmi qualcosa da lontano.
Hanno timore ad avvicinarsi allo straniero in moto e io faccio di tutto per non dargli corda.
Non ho voglia di parlare con nessuno, men che meno di dare adito a preoccupazioni di genitori o fratelli maggiori che possano scaturire in spedizioni punitive.
E neppure alimentare racconti di bambino su presunte ricchezze di un viaggiatore straniero,
racconti che qualcuno potrebbe poi voler verificare.
Mi rendo conto che possa sembrare esagerato pensare queste cose, ma essendo da solo ogni precauzione è valida,
purchè non diventi paranoia.
Starò con le orecchie tese fino a quando, verso mezzanotte,
il bar del paese non spegnerà la sua tamarrissima techno che copre ogni rumore nella notte.
I più attenti tra voi si staranno chiedendo come ho fatto ad aprire lo scatolame senza apriscatole.
Bastava davvero poco: ho usato il coltellino a serramanico comprato l’anno prima al mercatino delle pulci a Tbilisi.
Niente di eccezionale: un coltellino lungo 4 dita con una buona punta,di cui tengo la lama sempre affilata, e la scatola piano piano si è aperta. ‘Nto culu agli svizzeri e ai loro coltellini multiuso, nonché ai kazaki e ai loro produttori di carne in scatola.
Soddisfatto di quest’altro passo avanti, ma la carne della sera prima era più buona.
Sarà stata la compagnia?
Di nuovo sveglia all’alba. Il caffè della moka è buono, ma bevuto nel nulla è ancora meglio.
Mentre mi stiracchio mi dico che l’obbiettivo del giorno è raggiungere Aral, senza se e senza ma.
Il fondo non era proprio buono per dormire, tappezzato di ciuffi di sterpaglia dura,
ma lo stesso mi sento riposato e pronto a farmi questi 700km.
Il fatto di sapere che fino alla meta non c’è praticamente nulla, insieme alla strada che trovo per i primi 200 km,
mi conforta sulla fattibilità del programma.
Fino a Kizylorda il paesaggio si mantiene dolce e la temperatura abbastanza mite.
Il manto stradale è tutto sommato buono, anche se la sabbia ai bordi mi lascia intendere che poco lontano da lì non c’è molta vegetazione. Anche le deviazioni su sterrati laterali sono molto meno rispetto al giorno prima.
Comincio quasi a convincermi che tutte le storie sentite su questa statale siano esagerazioni di viaggiatori sboroni
che non hanno mai fatto una SA-RC o una SS 106, oppure che negli ultimi anni sia iniziata una politica di potenziamento delle infrastrutture. Addirittura dopo Kizylorda la strada è circondata da affioramenti d’acqua su cui cresce vegetazione spontanea dando vita a uno scenario che ricorda la steppa alle porte della Calmucchia.
Manco il tempo di pensarlo seriamente che si ricomincia con il saliscendi dalla carreggiata:
la politica di potenziamento delle infrastrutture è in atto, sì. Ma sono proprio all’inizio.
Per di più passate le prime ore del mattino la temperatura è salita notevolmente e si schiatta letteralmente di caldo.
Come e più del giorno prima mi ritrovo su sterrati dritti e abbastanza veloci mentre la polvere mi si attacca addosso impastandosi col sudore. Il fatto di non lavarmi da tre giorni non mi da fastidio più di tanto. La cosa fastidiosa è soltanto il caldo.
E l’unico modo per non sentirlo è andare avanti, cercando di sorpassare prima possibile i veicoli davanti a me o fermandomi per far andare avanti chi mi sorpassa.
Ci si mette anche il meteo, trasformando un dolce mattino d’estate in un teso pomeriggio di vento sabbioso.
Che spinge parecchio forte facendo inclinare di molto la moto.
Non capisco se il sole vada via per le nuvole o per la sabbia mentre arrivo in un enorme agglomerato urbano che secondo il navigatore si chiama Dzhusaly dopo aver attraversato un ripido cavalcavia.
Il paesaggio è veramente desolato con costruzioni di epoca sovietica ingrigite dal tempo e dalla sabbia che batte sempre più forte.
Mi fermo in una Chaikhana dall’evocativo nome Oasis davanti alla quale sostano parecchi TIR e camion di qualsiasi epoca del ‘900.
La gente lì intorno, perlopiù camionisti, mi guardano incuriositi mentre entro nella casupola.
C’è anche un po’ di gente che viaggia in pullman, in sosta per il pranzo.
Dentro, una caciara inimmaginabile.
Metà dell’ambiente, a sinistra, è occupata dalla pedana con i tappeti e i tavoli bassi.
A destra c’è un piccolo banco con la cassa e la vendita di bottiglie, pane, sigarette e cose simili dove tutti si accalcano come fossero broker a Wall Street, cercando di attirare l’attenzione della cassiera, una donna sulla 50ina discretamente in carne dai tratti spiccatamente slavi e con una punta di cattiveria negli occhi.
Sembra pronta a zompare oltre il banco e con le zanne fare strazio di quella plebaglia urlante e maleducata.
In asse con l’ingresso, un corridoio che da sulla cucina davanti alla cui porta un altro gruppo di persone aspetta di ricevere quanto ordinato. In tutto questo io mi sento parecchio smarrito: mi guardo intorno imbambolato senza capire cosa si dica tutta quest’umanità vociante ed affamata.
Vago per un tempo indeterminato nei 2 metri quadri liberi cercando di capire cosa devo fare.
Esco dal mio torpore quando uno dei ragazzi in fila alla cucina mi chiede se ho bisogno di aiuto e sì: mi puoi dire come funziona?
E allora aspetto che si plachi la calca alla cassa e con calma ordino da mangiare alla signora la quale rinfodera la punta di cattiveria nello sguardo e inizia a darmi ascolto con calma, premurandosi sempre che mi arrivi tutto e tutto sia ok.
Anche gli altri, i camionisti , si accorgono di me e scambiamo qualche chiacchiera.
Mi invitano a bere con loro della vodka ma rifiuto facendo il gesto di impugnare un manubrio e non insistono.
Quando si fa un viaggio di questo tipo la gente di solito ti si appiccica addosso per la curiosità, e spesso succede che ti infastidiscano con le loro domande sentite decine di altre volte o insistendo per bere insieme o spingendosi fino al contatto fisico.
I camionisti no.
Loro conoscono la dimensione della guida per ore nel nulla, da soli con i propri pensieri.
E’ la loro dimensione, il loro lavoro. Anche se sanno che io sono in vacanza, conoscono e rispettano la mia stanchezza.
E io rispetto la loro.
Mentre sto seduto a uno dei tavoli fuori dalla pedana, li osservo entrare e uscire:
quasi tutti sono a piedi nudi e sembrano non avere caviglie per quanto le hanno gonfie.
Migliaia di km seduti a controllare un volante, due leve del cambio e tre pedali.
E oltre il parabrezza un mondo fatto di vento che colora le cose con la sabbia.
I camionisti mi rispettano, io rispetto i camionisti.
La gran tempesta che sembrava stesse per arrivare pare abbia deciso di prendersela comoda.
Saluto il capannello di viaggiatori su autoarticolato intorno alla moto e continuo sulla M32.
Mi rendo conto dopo poche decine di km che la strada va dritta verso il nulla assoluto e il serbatoio segna metà.
Sulla sinistra vedo una chaikhana dove forse qualcuno può vendermi della benzina.
Ci giro intorno ma nulla, non c’è nessuno: perché non ho fatto benzina in città?
Faccio segno a un grosso SUV che attraversa la pista sterrata lì vicino di fermarsi.
E’ chiaramente un occidentale e appena inizio parlare in inglese mi dice: “ Ammazza, sei arrivato fino a qui co ‘a moto?”
E’ un ingegnere romano che lavora per la Salini S.p.A., la società italiana che sta costruendo la nuova M32.
Mi chiede scusa per i lavori non ancora completati.
Mi conferma che da dove stiamo ora fino ad Aral non c’è assolutamente nulla se non Baykonur e qualche villaggetto sperduto, e la prima benzina sta a un centinaio di km.
Lo saluto rapidamente per correre verso la moto alla quale si sono avvicinati tre tipi scesi da una bmw serie 3 degli anni ’80.
Uno dei Tipi è mbriaco perso e mi chiede con insistenza di fargli fare un giro.
Rispondo a ***** alle loro domande confuse mentre metto in moto tenendo d’occhio le chiavi affinchè le sue mani impiccione non le raggiungano.
Scappo sgommando letteralmente, lasciando una nuvola di polvere che mi nasconde i Fracidi nello specchietto.
Sono teso.
Sono inquieto.
Una fretta del diavolo si è impossessata di me e sento che c’è qualcosa di sbagliato in questa giornata.
La sensazione si amplifica man mano che vado avanti avvicinandomi al cosmodromo di Baykonur.
Faccio benzina poco prima di raggiungerlo in una cittadina che pare essere uno snodo dei principali elettrodotti del paese.
Scoprirò a casa, guardando le tracce del navigatore, che quella era proprio la cittadina del cosmodromo.
Riempio all’orlo il serbatoio in questo distributore dimenticato da Dio circondato dal nulla più desolante, mentre il vento incalza e la sabbia nasconde il cielo tingendolo di giallo.
Nulla di diverso rispetto a quanto visto finora, se non fosse per il fatto che la strada prosegue attraverso una selva di tralicci dell’alta tensione il cui ronzio si mescola al vento .
E’ un paesaggio davvero postatomico e la cosa che più mi impressiona è la forza bruta della natura a confronto con la fredda tecnologia umana.
Anche se gli esperimenti atomici venivano condotti lontano da qui, questa zona ha l’aspetto di un poligono nucleare.
Mi pento di non aver fatto una foto, perché a dirlo non rende l’idea.
Il pomeriggio trascorre tosto e lentissimo, e questa maledetta strada sembra non finire mai.
Ogni volta che trovo uno slargo tra i cumuli di sabbia posti a chiusura sull’asfalto nuovo mi ci infilo,
ma appena percorse poche centinaia di metri sono costretto a ridiscendere sulla pista perché la barriera è invalicabile.
Per giunta siamo in pieno deserto, quindi per andare dalla pista sterrata al rilevato stradale, distanti tra loro intorno al centinaio di metri in alcuni punti, bisogna attraversare un fondo di sabbia finissima, spesso non battuto se non dalle ruote dei fuoristrada.
E ho una profonda e genuina paura di perdere il controllo dell’anteriore o peggio di insabbiarmi, visto il peso della moto.
Oltretutto il battistrada comincia ad appiattirsi e comincio ad avere poca aderenza su sabbia e terra.
Fortunatamente la tempesta vera e propria non arriva.
Il vento ha deciso di graziarmi senza però rinunciare a rompermi le palle fino a ben oltre il cosmodromo, che scorgo in lontananza, inconfondibile per le sue antenne paraboliche.
Intorno a me solo cammelli e desolazione per lunghe centinaia di km.
E carovane di TIR. Mangio sabbia quando respiro, fumo sabbia quando mi fermo a fumare.
In un punto imprecisato , nel saliscendi di una deviazione, dalla polvere appaiono come fantasmi in direzione contraria tre motociclisti con pezzi degli anni 80.
Mi salutano ma non si fermano.
Intravedo giusto i loro stivaloni da cross. Uno di loro ha lunghi dreadlocks biondi. E questo mi innervosisce molto.
Voglio arrivare ad Aral prima che faccia buio anche perché dei polacchi incontrati all’inizio del pomeriggio, prima della sosta,
mi hanno detto di aver incrociato tre motociclisti italiani diretti ad Aral poco prima di me.
E da quel momento mi è presa la smania di raggiungere un branco a cui aggregarmi, un gruppo che mi dia un minimo di appoggio morale, qualcuno che abbia il mio stesso obiettivo: quello di tornare a casa senza sfracellarsi o insabbiarsi da qualche parte e
che all’occorrenza mi aiuti a evitare cose brutte.
Ma non è così facile guadagnare strada: le operazioni di saliscendi sono lunghe e spesso devo ritornare indietro a cercare un punto dove la sabbia sia più compatta.
Tanto che ad un certo punto me ne fotto dell’asfalto e provo a fare solo la pista.
Ma è durissima e sconnessa, oltre che piena di camion. Molti camionisti dalle loro cabine mi urlano di usare l’asfalto.
Verso l’imbrunire , calato il vento, sono dalle parti di Aral.
Oltre al cartello me lo dice anche il verde che ricomincia di tanto in tanto ad apparire sui rilievi per poi farsi inghiottire dal deserto.
La strada sembra buona per qualche decina di km ma poi si ricomincia col sali e scendi.
Ormai mi mancano una 60ina di km e sono stradeciso ad arrivare a destinazione.
Potrei anche fermarmi con la tenda lì intorno, ma è ormai questione di principio.
Allora risalgo sull’asfalto e do di gas.
Vado spedito.
L’asfalto è nuovo di zecca, solo qualche macchia o cumuletto di sabbia.
Eccone uno piccolo davanti a me.
Sembra piccolo: il parabrezza è sporco e non vedo che quel cumulo di sabbia forma due dossi di una certa consistenza.
Me ne accorgo mezzo secondo prima, quando è troppo tardi.
Non serve a nulla tirare il peso indietro: Sofia salta ma il posteriore , stracarico, va più in alto di parecchio.
Per il peso e il mono precaricato quasi al massimo inizia a rimbalzare:
scalcia letteralmente come un cavallo imbizzarrito, rimbalzando a destra e sinistra per tre volte.
Di colpo la prospettiva si abbassa e corro alla stessa velocità ma vicinissimo all’asfalto,
guardando dritto negli scarichi della moto alla mia sinistra.
Poi Sofia si gira facendo perno sul manubrio e mi guarda lei dritta negli occhi.
Strisciamo per una buona decina di metri e un paio di secondi che sembrano un’eternità.
Il primo istinto è quello di alzarmi immediatamente, e ci riesco.
Sto in piedi e posso camminare. La cosa principale è ok.
Soltanto mi brucia il ginocchio sinistro, lo guardo e vedo un buco niente male sul pantalone.
Ancora sento solo un certo fastidio ma so che tra poco farà un male cane.
Ho il cuore a mille e mi sento decisamente confuso.
Provo a rialzare Sofia ma capisco subito che non posso farcela da solo.
Mi guardo intorno e vedo che sulla pista sterrata, in direzione contraria, arriva una motina piccola.
Mi sbraccio a fare segni. Mi vede e piano piano mi raggiunge una yamaha 250.
Il russo alla guida non parla inglese e io di colpo non parlo più quel poco di russo che ho imparato e messo in pratica in questi giorni. Completamente rimosso.
Tiriamo su la moto che pare non essersi fatta nulla e, da brava compagna di viaggio, si accende al primo colpo per tranquillizzarmi.
Alexei pare invece più preoccupato per la mia gamba.
Mi chiede di sollevare il pantalone e quando tiro su mi lancia un’ occhiataccia e mi cazzia (in russo) mostrandomi le sue ginocchiere.
E sì… ricordo ancora la scena nel negozio a Roma: avevo in mano due ginocchiere belle toste e non le ho prese perché ero lì per comprare ricambi per il viaggio, ripromettendomi di passarci il giorno dopo, cosa che non ho più fatto.
Alexei mi cazzia forte e fa bene.
Immagino che se ci fosse stata Alexandra ora mi starebbe dicendo che sono un cazzone sfoggiando uno dei suoi sorrisi mentadent, mentre mi mostra i suoi stivali blindati da cross .
In effetti il ginocchio non ha proprio un bell’aspetto: ci sono atterrato sopra con tutto il peso e la prima parte della strisciata l’ho fatta su di esso, prima di girarmi e strisciare col fianco destro e il gomito sinistro per evitare di incastrare la gamba sotto la moto.
L’ho praticamente pelato come una patata sbucciata male e si vedono tutti gli strati della pelle e della carne viva come una sezione di un pezzo meccanico: un bollo poco più grande di 2 euro profondo che più non si può.
L’asfalto nuovo di pacca gli si è appiccicato sopra insieme a un bel po di pietruzze e sabbia di varia pezzatura.
Gronda sangue e sta iniziando a gonfiarsi tanto che la rotula perde di definizione rispetto al resto della gamba.
Alexei tira fuori le sue bende e garze sterili e la sua acqua ossigenata.
Mi fa pulire da me la ferita dopo averla bene innaffiata. Saggia mossa perché a strofinarla con la garza fa davvero male.
Poi esegue una fasciatura da manuale, lasciandomi un rotolo di bende e un paio di pacchi di garza da portare con me.
Capisco la sua perizia nelle medicazioni quando mi dice che è poliziotto in pensione (a 42 anni).
Suppongo l’abbiano congedato per infermità mentale e mi convinco non possa essere altrimenti,
dato che dopo avermi medicato mi saluta proseguendo per Baykonur, che dista buoni 150 km di quella stradaccia e sta facendo buio.
Così com'è comparso se ne va. Provvidenza o botta di ****? vai a capire!...
Io invece mi rincammino per Aral con addosso una stanchezza ormai conclamata dalla caduta, un ginocchio fuori uso e buona parte del corpo discretamente dolorante.
Faccio i 60 km rimanenti di saliscendi dalle piste con l’entusiasmo di un cane bastonato e raggiungo Aral che ormai è buio pesto.
E posso affermare senza tema d’essere smentito che si tratta davvero di un posto di merda.
E’ la prima serata quando arrivo, quella in cui i giovanotti locali escono:
chi con la ragazza -e allora sta più tranquillo e appagato- chi da single con gli amici e allora ha da sfogare tutta la frustrazione derivante dal passare l’adolescenza in un buco sperduto nel deserto senza un ***** di costruttivo da fare.
Da subito la gioventù locale si dimostra assolutamente inospitale, con gente che mi urla dalle auto, soprattutto vecchie Lada truccate, con luci allo xeno, vetri oscurati e pompate di subwoofer, che mi sorpassano a un centimetro.
Nessuno vuole darmi indicazioni per raggiungere un albergo, fino a quando non chiedo a dei ragazzini in bicicletta che sono felicissimi di portarmi all’hotel vicino la stazione, e lo fanno facendomi passare per vicoletti e stradine secondarie.
Sono stupiti del mio russo e sfrutto la mia posizione da avventuriero carismatico per esortarli a studiare, così da grandi conosceranno le lingue e anche loro potranno vedere il mondo.
Ma la cosa che più li affascina è la moto, per cui continuano a fare sgommate e derapate davanti all’albergo fino a quando non mi sistemo.
Il mio tentativo da educatore è stroncato sul nascere.
L’albergo fa letteralmente schifo: L’intonaco della reception è scrostato in molti punti, i muri sono sporchi e non vedono un pennello o una spatola di stucco da almeno trent’anni.
La signora della reception sta a guardare una telenovela in una stanza laterale.
Ci mettiamo a contrattare per il prezzo e pare completamente indifferente al mio status di miracolato della strada.
Non riesco a scendere sotto i 25 (!) euri per una camera che so già sarà da schifo.
Una vecchia mi accompagna nella mia reale stanza, che sta al secondo piano.
Saliamo usando le scale e ogni gradino è per me una bestemmia.
La stanza è davvero vecchia, con gli intonaci scrostati e la moquette sporca e bucata in diversi punti.
C’è un bagno con i tubi che perdono e la vasca arrugginita, come i tubi del resto.
Le lenzuola sembrano comunque decenti, ma dormirò sopra il sacco a pelo aperto su di esse.
La vera chicca è il chiavistello per chiudere dall’interno la porta della camera.
Torno di sotto per andare a mettere la moto nel garage che scopro essere un cortile appartenente a una famiglia che abita li di fronte.
La stessa vecchia mi porta da loro e ci riceve un altro vecchio che, a petto nudo coi soli pantaloni di una cosa che pare essere un pigiama, mi farfuglia il prezzo e la posizione da occupare. Il cortile è pieno zeppo di fuoristrada tedeschi e francesi e sistemiamo la moto in modo tale da non intralciare le manovre di questi. Cosa abbastanza difficile visto il caos che regna in quello spiazzo, oltre all' oggettiva difficoltà di farlo con una gamba sola .
Non ricordo la cifra pattuita, fatto sta che do un pezzo piu grande e mi viene detto che il resto l’avrei preso l’indomani mattina.
Tutte queste operazioni, la calma da mantenere e la diplomazia da sfoderare mi pesano particolarmente.
Se non avessi avuto l’incidente avrei fatto un’altra notte di wild camping senza vedere nessuno ma ho bisogno di un posto pulito (!) per stanotte.
Mi incazzerei pure ma in questo momento sono troppo sfatto per protestare.
Vado a mangiare in un posto lì di fronte.
Sono l’unico in questa sala ristorante al piano terra infestata dalle mosche.
Di sopra c’è musica dance a palla e di continuo entrano signorine e giovanotti tirati pacchianamente a lucido.
Nessuno sembra fare caso allo straniero, anche quando lo straniero va fuori a fumare vicino ai giovanotti fieri di accompagnare le signorine che al piano di sopra cinguettano e fanno caciara.
Meglio così, perché non ho nessuna voglia di socializzare.
Ho l’impressione di guardare tutti di traverso. E ne ho motivo.
Mando un sms sintetico ma dettagliato al Capo dello Studio spiegandogli la situazione e prevedendo di dover rallentare l’andatura.
Mando un sms alla dolce metà ora in giro per l’Amazzonia rassicurandola del fatto che sto bene e che la moto cammina.
A mia sorella scrivo tutto ok. Nessuno risponde tranne mia sorella.
Vado a letto dolorante dopo essermi sciacquato a pezzi per levare il grosso di tre giorni di polvere,
ma con scarsi risultati visto il filino d’acqua che esce dalla doccia.
L’indomani mattina mi sveglio con calma e per prima cosa vedo di procurarmi un caffè.
Trovo solo un nescafè al latte in un posto dietro l’angolo dove la ragazza di turno mi guarda in cagnesco e lava il pavimento con la varecchina mentre provo a mangiare qualcosa.
Vado in una farmacia lì di fronte per comprare acqua ossigenata e bende.
Il farmacista è molto scortese e ancor più di lui un altro cliente che mi supera nella fila pur vedendomi zoppicare di brutto.
Sarà il sole che mette tutto in evidenza, ma di giorno questa città è ancora più squallida.
Tutti sembrano immersi in un loro microcosmo personale fatto di rabbia e frustrazione.
Penso non sia dovuto al solo fatto di vivere in un deserto: ho attraversato km di desolazione e bene o male ho sempre incontrato gente ospitale e accogliente, chi più chi meno.
Mi viene da pensare che la rabbia sia dovuta al fatto che queste aree siano diventate inospitali per mano dell’uomo da pochi decenni.
Vivere a ridosso di un lago che si prosciuga, con le navi incagliate nella sabbia arida e un economia svanita come la stessa acqua del lago, mentre tuo nonno ti racconta di pascoli verdi e pescherecci che arrivavano carichi al porto, non può che generare frustrazione, odio per gli altri e voglia di fuga. Fuga di fatto inattuabile perché non c’è modo di fare soldi per andare via.
E’ un cane che si morde la coda.
Cosa volete che gliene fotta a loro di un turista straniero che si permette il vezzo di arrivare fin qui in moto a scimmiottare la loro catastrofe? E secondo me hanno pure ragione, per inciso.
Se la politica del governo tendesse a spingere sul turismo della catastrofe, educando la gente del posto a raccontare la storia ai turisti e investendo in strutture ricettive, allora sarebbe diverso.
Ma da quello che ho visto il potere tende a non parlare di questa zona.
Negli stessi opuscoli distribuiti al consolato sono descritti diversi percorsi, ma in nessuna pagina si parla del lago d’ Aral.
Ricordo che lo stesso Samat, mentre mi spiegavano la strada per arrivarci da Qulsary, mi disse:
"la domanda è: perchè vuoi andare ad Aral?"
Fin quando verrà vissuta come una vergogna non credo potranno essere felici di vedere occidentali su Jeep e enduro scorazzare e fare foto alle navi arenate nel deserto.
Intanto il turista straniero ha colto i segni che il destino gli ha mandato.
Decido di lasciar perdere ‘sto ***** di cimitero delle navi:
due volte ho deciso di andarci e la prima sono rimasto insabbiato nel deserto, mentre la seconda mi sono cappottato sull’ asfalto nel nulla.
Ed entrambe le volte ho avuto un **** sovrumano a cavarmela.
Qualcuno lassù mi sta dicendo di non andarci.
E non ci andrò.
Vado piuttosto a cambiarmi la medicazione in camera.
Cerco di ripetere la fasciatura fatta da Alexei e al secondo tentativo più o meno ci riesco. Il ginocchio è gonfio come un pompelmo e la ferita è profonda ma sono ottimista: ha un buon colore e penso che col vento sulla moto si asciugherà meglio.
Porto giù i bagagli e riprendo la moto dal cortile senza ricevere resto ma me ne fotto di loro e dei loro pidocchi.
Prima di caricare e partire però smonto quel maledetto cupolino della Puig, troppo alto per me.
Ancora più alto considerando l’abbassamento del posteriore dovuto al carico extra.
Con la luce del sole e la mente riposata controllo meglio i danni alla moto e ho la conferma che praticamente non ce ne sono:
i paracolpi in plastica sul serbatoio hanno funzionato alla grande, così come i paramani (quelli originali a cui non davo una lira)
che hanno salvato leve e manopole.
Buona parte del colpo l’ha assorbito la valigia sinistra che ha fatto anche da pattino per la scivolata.
Questa, a parte l’abrasione sullo spigolo più esposto e una inevitabile ammaccatura sul lato interno all'altezza del telaio,
non ha risentito più di tanto dell’urto.
Ci metto un po a levare il cupolino e a caricare i bagagli in modo più equilibrato, anche per il nervosismo causatomi da due adulti del posto che si sono messi lì a farmi le solite domande del *****.
Unica cosa utile che mi dicono è che nel giro di 200 km la strada diventa perfetta fino ad Aktobe.
Alla fine riesco a sistemare tutto e finalmente via da questo posto di merda.
Il navigatore mi fa fare un giro panoramico della città prima di indirizzarmi sulla M32.
Ovunque soltanto casette basse e infrastrutture fatiscenti abitate da gente che pensa spudoratamente ai ***** suoi.
Sì… decisamente un posto di merda. Riattraverso la porta coi leoni, simboleggiante non si sa quale fasto, e sono di nuovo sulla M32.
Mi fermerò entro una 50ina di km a pranzare in un posto sperduto sulla strada dove comincerò a chiedermi se sono io fuori dal mondo o sono loro strani: Chiedo info a dei locali che telefonano a un italiano della Salini per darmi conferma che la strada sarà buona entro un centinaio di km premurandosi in maniera davvero eccessiva e quasi invadente di farmi avere quest’informazione, andando poi via senza salutarmi.
La ragazza al banco mi sorride, è incuriosita dal mio orecchino, cerca di attaccare bottone come può. Ma alla fine mi tratta male quando arriva il momento di pagare.
Rifiuto di capire. Ho altro a cui pensare.
Mando un altro sms al capo per avere conferma della ricezione ma nessuna risposta.
Ormai ho deciso che non forzerò la mano, ma preferirei avere conferma da parte sua.
Con un sms dico a mia sorella quanto accaduto e la rassicuro che funzioniamo sia io che Sofia.
Mi risponde che mi vuole bene.
Le rispondo che anch’io le voglio bene.
Ed è la prima volta che ce lo diciamo.
Con un sms a 10mila km di distanza.
Alle venerande età di 40 anni io e 50 lei.
La morosa non risponde ancora. La mia scheda deve avere problemi a mandare sms in Ecuador.
E’ simpatico il fatto che mentre io mi cappotto nelle lande kazake, lei si perde intorno a un lago dentro un cratere vulcanico.
Sarà una guida locale a recuperare lei e la sua amica sul calar del sole.
Per i primi km il paesaggio è ancora desertico e la strada sterrata e piena di camion però man mano che risalgo verso nord ovest il paesaggio si fa più verde e i cammelli lasciano il posto a mandrie di cavalli e bovini che pascolano liberamente e fuggono spaventati al mio passaggio.
Spesso intravedo falconi dominare in volo la sconfinata pianura e mi sento parte anch’io dell’ecosistema, tutt’ uno con cavalli, rapaci e camionisti.
La cosa che più ricordo di questi giorni è il cielo: qui sembra più grande, l’azzurro è purissimo e le nuvole vi si stagliano bianche molto più nitidamente che da noi.
Sulla sinistra vedo in lontananza i rilievi montuosi che attraverserei se prendessi la M26 come avevo pensato di fare,
ma alcuni camionisti in una chaikhana mi dicono che la strada è sterrata e non ci sono molti centri abitati.
Decido di ascoltarli e di farmi l’asfalto, viste le condizioni della gamba che di fatto non riesco a caricare.
A parte queste basse montagne non c’è nient’altro a sporcare l’orizzonte piatto e verde.
Io mi sento ormai in pace: stremato, con un ginocchio fuori uso che fa malissimo, sporco e appiccicoso.
Ma in pace e con una sensazione addosso simile alla serenità.
Non posso non pensare all’assurdità di correre per gli impegni che mi aspettano a 8000 km di distanza mentre sto vivendo il sogno degli ultimi anni, ma riesco a guardare la cosa con il dovuto distacco.
Non è il primo viaggio in solitaria e fuori dall’Europa, ma sicuramente è il più difficile fatto finora.
Ormai ci sono dentro: non è più una vacanza. Adesso è la vita: ritorna la sensazione provata in Russia, il giorno che incontrai Pavel.
Potrei fare questa vita per tanto tempo. Non è una vacanza propriamente detta: è più una messa alla prova sui propri limiti e possibilità.
Che dopo un po di tempo diventa l’unico modo possibile e vero di conoscere il mondo.
Viaggiare non tanto per vedere cose ma per incontrare gente.
Alla ricerca di storie da farmi raccontare che mi lascino la voglia di raccontarle ad altri.
Farmi lasciare un segno dentro dagli sguardi e dalle parole e dai gesti.
Potrei farlo, vorrei farlo.
Potrei benissimo tornare indietro verso Shimkent, regolarizzare la situazione del visto prolungandolo e lavorare in qualche modo.
Potrei continuare verso est, superare la Mongolia e arrivare a Magadan.
Potrei ridiscendere verso Vladivostok e da lì imbarcarmi per il Giappone.
Potrei fare tante cose.
Ma non è mio costume mollare tutto senza preavviso.
Ho impegni di lavoro da mantenere, una casa in affitto con un amico.
E poi ci sono gli affetti.
E sono quelli la vera catena che ci imprigiona alle nostre vite.
L’unico motivo per cui non mollare tutto e partire alla scoperta di questa piccola sfera nell’universo.
In questo pomeriggio passato nella landa desolata più bella che abbia visto finora prendo consapevolezza del fatto che questa per me non è una scusa.
Per arrivare a questo distacco dalla mia vita ufficiale è stato necessario cappottarmi a 100 all’ora in un deserto.
L’essere umano è proprio cazzone a volte!
Anche l’arrivo del tramonto col calare del livello di benzina non mi agita più di tanto.
Trovo un distributore in una zona umida infestata dalle zanzare a un centinaio di km dalla prima vera città che ormai è buio.
Chiedo se ci sia un posto per dormire da quelle parti ma niente: mi tocca arrivare a Khromtau.
Se non fossi acciaccato dormirei anche in tenda, ma voglio controllare la ferita e disinfettarla.
Negli ultimi km l’asfalto perfetto è interamente coperto da brecciolino finissimo che, considerando le mie condizioni, mi risulta non poco impegnativo.
Il perché di questa distesa di pietrisco credo di scoprirlo all’inizio della città.
Sul buio si staglia un’enorme e minacciosa fabbrica che ha tutto l’aspetto di essere la parte meccanizzata di una grande cava.
Riesco a trovare un albergo in zona centrale e mi accordo per un prezzo ragionevole per una stanza pulita con un bagno vero.
C’è anche la possibilità di lasciare la moto in un parcheggio custodito in un piazzale lì vicino.
La gnura dell’albergo, cicciottella con gli occhi di ghiaccio, mi sconsiglia di andare a mangiare nei locali lì vicino: troppi giovinastri ubriachi in cerca di risse e io sarei un bersaglio perfetto.
Mi consiglia piuttosto di comprare qualcosa al Magazin lì vicino e di mangiare in camera.
Cosa che farò dopo aver parcheggiato.
Mangio una specie di formaggio industriale che dalla forma sembrava un wurstel, mentre guardo una fiction australiana doppiata in russo mandando già a lunghe sorsate di birra un pasto non proprio invitante.
In tv passano dei cartoni sovietici degli anni 70 quando mi sposto in bagno per la medicazione.
E lì la sorpresa: sapevo che il vento l’avrebbe asciugata, solo non credevo così rapidamente.
La crosta si è perfettamente indurita inglobando le garze.
Utilizzo una boccetta intera di acqua ossigenata per scioglierla: ogni volta che la schiuma si dirada la garza è ancora saldata e mi trovo costretto a strapparla via con cautela ma con fermezza.
Sudo freddo, la testa mi gira e ho una scarica di conati di vomito ma alla fine ce la faccio.
Rimango sudato a fumare un paio di sigarette russe sul pavimento fresco prima di farmi una doccia, mentre penso che mi sono rotto le palle di fare Rambo tutte le estati.
Mi riprometto per l’anno prossimo di fare il villeggiante stanziale su una spiaggia e vaffanculo all’avventura.
Lascio asciugare la ferita senza bende mentre crollo soddisfatto sulle lenzuola pulite
godendomi il fresco della serata e mandando mentalmente tutti affanculo.
grazie!
vi prometto che cercherò di finirlo prima possibile.
Ormai siamo agli sgoccioli,
ma trovare un po di tempo per concentrarsi
di questi tempi mi viene un po difficile.
Grazie per la pazienza
Totò, ti chiedo una cosa: secondo te, partendo da Aralsk mattino presto, ci si arriva ad Aqtobe alla sera prima del tramonto con le condizioni stradali che hai trovato?
Mi hanno detto di sì in tanti, prima del viaggio a Samarcanda che ho fallito e abbandonato all'andata in Kazakistan nel 2011 per problemi alla moto di allora, ma volevo sentire anche la tua voce da persona che di là c'è passata di recente.
E' vero che la M32 la stavano riasfaltando, quando sei passato tu?
Dal 1996 on the road tra Europa, Africa, Asia e Nord America.
Totò, troverò a chi assomigli, nessuno sfottò, ma anzi un complimento.
Per quanto riguarda il Report devo dire che non è solo bello o interessante. E' profondo. E per me fa tutta la differenza del mondo. Hai la rara dote di trasmettere l'empatia via scrittura; questo vuol dire trovarsi preoccupato con te sulla strada mentre si fermano 3 ubriachi su un BMW anni 80, cercare di immaginare Alexandra e la sua maschera, o semplicemente provare a capire Samat.
Grazie per avere condiviso anche le emozioni quindi, non solo i luoghi...
In moto, sempre in moto.
K1600GT - F.P.C. M05 - "Principessa Elena"
ZR7 - F.P.C. M06 - "Trovatella"
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